Cassazione. Minzolini, confermata la condanna a due anni e mezzo per peculato. E ora rischia anche il seggio

Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1, oggi senatore di Forza Italia (in carica dal 15 marzo 2013), è stato definitivamente condannato a due anni e mezzo per peculato continuato (art. 314 del codice penale) dalla VI Sezione Penale della Cassazione, che ha rigettato il ricorso del giornalista e parlamentare dopo la condanna in secondo grado.

Confermata anche l’interdizione dai pubblici uffici per la durata della pena (esattamente come stabilito dalla Corte d’Appello di Roma il 27 ottobre 2014). L’accusa sostiene che Minzolini avrebbe utilizzato “in modo improprio” la carta di credito che gli era stata fornita dalla Rai per le spese di rappresentanza quando era ancora direttore del Tg1 (da giugno 2009 a dicembre 2011): secondo quanto esposto avrebbe riportato le ricevute, ma non avrebbe giustificato il motivo delle ingenti spese per i pasti, per un importo totale di circa 65mila euro in soli 14 mesi. In sostanza, quelle mangiate poteva farle con chi voleva, quando voleva e come voleva, il tutto a spese di Rai. Dal processo, nato su iniziativa di Italia dei Valori, Minzolini era uscito indenne, con l’assoluzione in primo grado: il 14 febbraio 2013 i giudici avevano sentenziato che l’allora direttore non avesse reale consapevolezza di spendere denaro pubblico in maniera impropria (e spregiudicata), non avendo chiaro il sistema di utilizzo della carta ricevuta; Minzolini credeva, poi, che la carta di credito gli fosse stata lasciata a completa disposizione dalla Rai come compensazione per l’esclusiva (ossia il divieto di altre collaborazioni giornalistiche) inserita nel contratto con la tv pubblica. Motivazioni deboli, che rasentano il chimerico, tantoché la Corte d’Appello ha poi ribaltato il verdetto precedente, argomentando, fra l’altro, che Minzolini avrebbe utilizzato “quasi quotidianamente” la carta di credito aziendale “per spese di natura esclusivamente personale”, che “non documentò mai le ragioni di rappresentanza, né i beneficiari della spesa” e che “conosceva perfettamente il fine”, ossia le modalità di utilizzo della carta, nonostante l’ex direttore sostenesse il contrario. I giudici d’appello bocciarono anche l’argomento dell’esclusiva: “Non si comprende per quale ragione avrebbe dovuto avere una sorta di compenso aggiuntivo”, frase quanto mai azzeccata se consideriamo che dalla Rai riceveva ben 578 mila euro l’anno (in soldoni, più di 48 mila euro al mese), mentre il suo stipendio precedente, da cronista de La Stampa, arrivava a 200 mila euro. Da qui parte il ricorso in Cassazione presentato dal difensore dell’ex direttore, l’avvocato penalista Franco Coppi (proprio lo stesso che cercò, inutilmente, di risparmiare a Silvio Berlusconi, sempre in Cassazione, la condanna per frode fiscale costata all’ex Presidente del Consiglio la decadenza da senatore), ma ogni tentativo è caduto nel vuoto. Per il “direttorissimo”, così come lo chiamava in tono confidenziale Berlusconi, il tempo degli onori è finito: l’ex direttore è ormai diventato semplicemente un pregiudicato. Minzolini preferisce addossare la colpa alla politica: “Sono allibito. In appello sono stato condannato da un giudice che è stato sottosegretario con i governi Prodi e D’Alema. E’ come se Prodi o D’Alema dopo aver militato in politica per anni giudicassero Berlusconi. Questo è il sistema giudiziario italiano. Sono stato assolto in primo grado e condannato in appello a una pena maggiore di quella che chiedeva l’accusa. Evidentemente c’è qualcuno che mi vuole vedere fuori dal Parlamento”. Sul “fuori dal Parlamento”, tuttavia, non ha torto: l’effetto più importante della sentenza che, come la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, al momento è sospesa, è quello dato dalla legge Severino (Legge n. 190/2012 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”): in caso di condanna definitiva per reati contro la pubblica amministrazione con una pena superiore a 2 anni, infatti, è prevista la decadenza dalla carica pubblica (in questo caso da quella di senatore). Del caso si dovrà occupare la giunta per le elezioni del Senato, un caso simile, ironia della sorte, a quello di Silvio Berlusconi. (S.F. per NL)

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