Internet e Tv: le difficoltà dei broadcaster alle prese con la libertà di palinsesto

Nell’infinito dibattito su quale medium, tra internet e televisione, sarà in grado di imporre i propri modelli all’altro, arrivano ogni giorno nuovi e apparentemente contraddittori dati su cui discutere.

I più recenti sembrano suggerire che, almeno in Italia, la tv non sia poi così in crisi. Il decimo rapporto Censis/Ucsi sulla comunicazione, da poco presentato, parla addirittura di aumento del pubblico televisivo, che coincide praticamente con la totalità della popolazione (98,3%). In questo scenario la televisione, grazie alla rete, non solo non riduce la propria area di influenza, ma trova nuove vie per raggiungere i suoi utenti, anche in tempi e luoghi prima inesplorati. Risulta infatti che un’ampia percentuale di italiani connessi a internet usufruisca dei programmi televisivi sui siti delle emittenti, oppure tramite YouTube. E contemporaneamente utilizzi i social network per commentare quanto sta vedendo. Da questo punto di vista, la rete sembra rivestire un ruolo di supporto rispetto alla fruizione televisiva, recando con sé il valore aggiunto di flessibilità e condivisione, ma non mutando il paradigma uno-a-molti che caratterizza il medium tv. Anche il trend degli investimenti pubblicitari, pur premiando internet con costanti aumenti percentuali (peraltro non più così cospicui negli ultimi tempi), mostra la sostanziale invarianza e prevalenza delle cifre attribuite alla televisione, alla quale di sicuro contribuiscono proprio le nuove possibilità di diffusione date dai servizi online. Tuttavia la sensazione è che le potenzialità di questo nuovo mercato siano ampiamente sottovalutate. I broadcaster si muovono verso la rete con estrema cautela e apparentemente senza una precisa e forte strategia, proponendo i propri contenuti e servizi su web e dispositivi mobili come semplici add-on della propria offerta mainstream: rigorosamente riservati ai pacchetti a pagamento (vedasi SkyGo e Premium Play) o infarciti di copiosi spot pubblicitari (vedasi Rai), e rivolti ad una vaga, ma evidentemente ancora ritenuta minoritaria, categoria di utenti “evoluti”. Si tratta spesso di servizi con diverse rigidità e paletti posti a tutela del copyright, che impediscono la riproduzione e conservazione dei contenuti, e di applicazioni piuttosto chiuse e “brandizzate”, che mal si conciliano con l’efficacia degli standard aperti più diffusi in rete. Questi strumenti “proprietari” riscuotono paradossalmente più successo proprio con gli utenti meno avanzati, quelli che conoscono solo l’internet semplificata delle app per smartphone, tablet e smart TV. Un successo ancora insufficiente, in ogni caso, a convincere le nostre imprese televisive che il futuro debba passare dal web e dai nuovi dispositivi mobili. In realtà, queste applicazioni rispondono solo in minima parte alle esigenze rappresentate da quella grande categoria di utenti che, pur non essendo particolarmente “evoluti” e apprezzando ancora la programmazione televisiva, si è accorta ormai da tempo di quanto la rete può essere funzionale a rendere più facile e piacevole l’esperienza di guardare la tv. Se infatti il traffico video in rete sta aumentando a livelli vertiginosi, il merito non è certo dei portali delle televisioni (almeno di quelle nostrane), ma semmai di servizi decisamente più aperti e accessibili come YouTube o simili, tacendo peraltro di tutto il florido mondo che vive di visioni e scaricamenti illegali. E’ proprio partendo da questa crescente domanda di totale libertà e flessibilità di costruzione del proprio personale palinsesto, che realtà come Netflix hanno avuto grande successo negli USA. Da noi, la scarsa attitudine all’innovazione e l’atteggiamento di chiusura sulle questioni legate ai diritti di trasmissione e riproduzione hanno fatto sì che questa domanda sia rimasta largamente insoddisfatta. Il tutto rafforzato anche dai rassicuranti trend pubblicitari sopra evidenziati, che fanno dormire sonni relativamente tranquilli a chi fa televisione “tradizionale”, contribuendo a lasciare immutata la situazione. Perché rischiare nell’adozione di nuovi modelli di business, mentre tutto sommato quelli attuali e storicamente collaudati, basati appunto sulla pubblicità, danno ancora garanzia di profitto? Tutto però potrebbe rapidamente cambiare, nel momento in cui qualcuno si ponesse seriamente come soggetto in grado di riempire quel “vuoto” di offerta televisiva che spinge tanti utenti a rivolgersi al mercato illegale. L’assetto protezionistico sui diritti, che finora ha favorito l’arroccamento dei player televisivi, potrebbe non reggere alle pressioni dei sempre più potenti over-the-top d’oltreoceano, e allora qualcuno potrebbe rimpiangere di aver perso l’occasione per porre le basi di un nuovo modo di fare televisione, non “contro” ma “con” la rete. (E.D. per NL)

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