Alle volte può capitare che i ruoli si invertano e che sia un giudice ad essere, eccezionalmente, parte di un processo.
È quanto accaduto ad un magistrato in servizio presso il Tribunale partenopeo, che è stato vittima dell’illecito disciplinare di cui al D. Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1, comma 1 (che punisce il magistrato che non esercita le proprie funzioni con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e che non rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni) e di cui all’art. 2, comma 1, lett. d) (che censura i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori). Il motivo che ha portato alla condanna del Giudice napoletano è da ricondurre nella redazione ed emissione di due sentenze civili con motivazione sostanzialmente costituita dalla pedissequa riproduzione della comparsa conclusionale depositata dalla parte vittoriosa, così da far presumere che la decisione non fosse stata assunta in piena autonomia di giudizio. La questione è dunque finita sul tavolo del Cassazione, poiché, secondo il magistrato, la Sezione Disciplinare avrebbe annoverato tra i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti (ovvero, la lettera d) dell’art. 2 della legge in commento) anche le modalità di redazione della motivazione della sentenza, sebbene l’invocato precetto riguarderebbe un vizio concernente la persona del magistrato stesso e non le modalità di redazione della sentenza. La Cassazione ha ritenuto di dover aderire a tale orientamento, tenuto conto del fatto che, nella fattispecie in esame, le sentenze emesse dal magistrato –per riportare pedissequamente parti degli atti processuali di una parte- dovevano ritenersi prive di motivazione e, dunque, lesive dell’interesse non solo della parte soccombente e del suo difensore, ma anche della stessa parte vittoriosa e di tutti i consociati in relazione al generale interesse all’autonomia della funzione giurisdizionale ed alla percezione della terzietà del giudice. Pertanto, tale indeterminatezza dei destinatari del comportamento scorretto posto in essere dal magistrato, secondo la Consulta, impedisce la configurabilità dell’illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. d), che presuppone comportamenti scorretti nei confronti di determinati soggetti. Nondimeno, non è sufficiente ad escludere l’applicazione, al caso in esame, dell’art. 2 lett. l) D.Lgs. n. 109 del 2006 (avente ad oggetto il difetto di motivazione) la considerazione che anche una motivazione integralmente ricopiata da un atto difensivo di parte possa essere ampiamente idonea a sorreggere la decisione e che, comunque, una sentenza motivata sulla trascrizione di atti di parte non possa dirsi, in sé, priva di motivazione. Sul piano disciplinare, infatti, è censurabile la condotta del magistrato che motiva il proprio provvedimento “ricopiando” un atto di parte in quanto ciò non consente di avere la certezza che la decisione assunta sia il frutto di una fase di autonoma elaborazione da parte del giudice nella sua imprescindibile posizione di terzietà. La Consulta ha poi preso in esame la trascrizione di parti di scritti difensivi concernenti la mera narrazione dei fatti causa, escludendo ogni automatismo a riguardo, ovvero ritenendola sempre costituente o sempre non costituente illecito disciplinare, dovendo essa essere valutata di volta in volta in relazione all’immagine del magistrato che se ne desume. (D.G. per NL)