2° Convegno regionale “Giustizia e Informazione” – Bema (So), sabato 8 luglio 2006

Diffamazione a mezzo stampa, una riforma possibile che bilanci diritto di cronaca e tutela della dignità della persona relazione di Francesco (“Franco”) Abruzzo – presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia…


INDICE
1. Premessa. Intercettazioni. Segreto istruttorio da eliminare.
2. Disegno di legge 2005 sulle intercettazioni. Un rischio ormai alle spalle?
3. Il giornalista (come l’avvocato) diventi parte nel procedimento penale.
4. La riforma (abortita) del 2004 del reato di diffamazione a mezzo stampa. L’interdizione dalla professione (con il rischio per il giornalista di perdere lavoro e stipendio).
5. Proposta di riforma della legge sulla stampa n. 47/1948 e in particolare del reato di diffamazione a mezzo stampa.
6. Il progetto di riforma. Proposta di modifiche:
a. agli articoli 5, 8, 11, 12 e 13 della legge n. 47/1948;
b. all’articolo 595 Cp;
c. all’articolo 593 Cpp;
d. all’articolo 2947 Cc.
1. Premessa. Intercettazioni. Segreto istruttorio da eliminare. Ripeto qui a Bema, quello che vado sostenendo da tempo: serve una legge di un solo articolo che abolisca i segreti istruttori in vigore, i quali sono inutili perché vengono sistematicamente violati da una pluralità di soggetti pubblici. La nuova legge dovrebbe dire che è vietato pubblicare soltanto quegli atti processuali sui quali il giudice abbia deciso di apporre il vincolo temporaneo di segretezza. La nuova legge dovrebbe dire anche che i cronisti giudiziari, come mediatori intellettuali fra i fatti e la pubblica opinione, hanno il diritto di estrarre copia degli atti processuali depositati in cancelleria al termine della varie fasi istruttorie. L’abolizione del segreto istruttorio cancellerebbe le corsie preferenziali alle informazioni nella fase delle indagini istruttorie.
E’ legittimo, in via di principio, pubblicare le intercettazioni che consentono di far luce sui retroscena delle scalate bancarie e societarie, ma va assicurato il diritto preventivo di difesa ai protagonisti delle intercettazioni. Il rispetto del diritto di difesa significa soprattutto rispetto della dignità delle persone, che sono estranee alle inchieste penali, ma anche di chi vi è coinvolto sul presupposto che un’informazione di garanzia non è una condanna e che la presunzione di innocenza è un valore costituzionale.
Dietro le scalate bancarie e societarie (e oggi dietro calciopoli) si nascondono lotte di potere che possono sconvolgere gli equilibri politici ed economici del Paese. E’ giusto che i cittadini sappiano. I giornalisti hanno il dovere e l’obbligo di accertare i fatti e di non pubblicare notizie del diavolo, ma soprattutto di non combattere guerre per conto terzi. I cronisti, comunque, non sono custodi del segreto istruttorio: questo compito spetta ad altri soggetti (pubblici).
Diversi magistrati covano una vecchia visione, che non tiene conto soprattutto del dettato costituzionale, che sancisce il diritto dei cittadini a partecipare alla vita politica, economica e sociale della Nazione. Si partecipa se si è informati. Altrimenti perdura il vizio di trattare i cittadini come sudditi. Va affermato il principio secondo il quale il giornalista, che riceva una notizia coperta da segreto, può pubblicarla senza incorrere nel reato previsto dall’articolo 326 del Cp. E’ palese la differenza con il reato di corruzione, che colpisce sia il corrotto sia il corruttore. L’articolo 326, invece, punisce solo chi (pubblico ufficiale) viola il segreto e non chi (giornalista) riceve l’informazione e la fa circolare. Ferma restando, ad ogni modo, la prerogativa del giornalista di non rivelare l’identità delle proprie fonti. Il giornalista, che svela le sue fonti, rischia il procedimento disciplinare al quale non può, comunque, sfuggire per l’evidente violazione deontologica. Una lettura ragionevole dell’articolo 326 del Cp evita l’incriminazione (assurda) del giornalista per concorso nel reato (con il pubblico ufficiale…..loquace) e le perquisizioni, arma ormai spuntata dopo le sentenze “Goodwin” e “Roemen” della Corte di Strasburgo.
Il Codice di procedura penale, in base alla relativa legge-delega, “deve adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale“. Il Parlamento in sostanza deve calare nel Codice le sentenze Goodwin e Roemen nonché l’articolo 10 della Convenzione, abolendo il potere del Gip di interrogare il giornalista. Finirà la storia dei giornalisti arrestati e condannati perché difendono il segreto professionale anche come cittadini europei? L’articolo 200 del Cpp afferma il diritto del giornalista professionista al segreto sulle sue fonti fiduciarie, ma nel contempo autorizza il giudice a interrogarlo sulle sue fonti fiduciarie. Potere, questo, che fa a pugni con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Il Parlamento deve sancire una volta per tutte la regola in base alla quale il giornalista ha diritto al segreto professionale come gli altri professionisti. Punto e basta. Non una parola in più. Strasburgo ha spiegato perché è necessaria ed urgente questa svolta. Il segreto professionale dei giornalisti difende il diritto dei cittadini a essere informati su quel che accade (anche nei Palazzi del potere e nei Tribunali).
2. Disegno di legge 2005 sulle intercettazioni. Un rischio ormai alle spalle?
Mi auguro che il ministro della Giustizia, che parla in questi giorni di legge sulle intercettazioni, non recuperi i 14 articoli del disegno di legge (varato dal Governo Berlusconi il 9 settembre 2005) sulle “Disposizioni in materia di intercettazioni telefoniche ed ambientali e di pubblicità negli atti del fascicolo del pubblico ministero e del difensore“. Quei 14 articoli, una volta diventati legge, decreterebbero la fine della cronaca giudiziaria. Si tornerebbe alla legislazione del 1930: verrebbe, infatti introdotto il divieto di pubblicazione anche parziale o per riassunto o nel contenuto, di atti di indagine preliminare, nonché di quanto acquisito al fascicolo del pubblico ministero o del difensore, anche se non sussiste più il segreto, fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare….. E’ in ogni caso vietata la pubblicazione anche parziale o per riassunto della documentazione, degli atti e dei contenuti relativi a conversazioni o a flussi di comunicazioni informatiche o telematiche di cui sia stata ordinata la distruzione. Con queste clausole in vigore, i quotidiani non avrebbero potuto pubblicare le conversazioni telefoniche (intercettate dalla polizia giudiziaria) tra il Governatore di Bankitalia Antonio Fazio e il banchiere Gianpiero Fiorani. Fazio sarebbe oggi al suo posto. E anche Luciano Moggi sarebbe ancora oggi direttore generale della Juventus alla testa di una “cupola” che ha esercitato di fatto il potere nel mondo del pallone almeno negli ultimi 10 anni.
Sergio Beltrami, magistrato, ha scritto (D&G, n. 35 del 1° ottobre 2005): “Con l’estensione del divieto di pubblicazione degli atti, anche se non più coperti da segreto, al loro contenuto, ed anche solo per riassunto, a guisa di informazione, si ritornerebbe indietro di 75 anni, reimponendo inaccettabili bavagli alla stampa: non sarebbe, ad esempio, consentito dar notizia neanche di un arresto, ovvero della esecuzione di una ordinanza applicativa di una misura coercitiva, atti non soggetti a segreto, e questo appare francamente aberrante“.
I cronisti e i direttori “riottosi e ribelli” avrebbero rischiato la sospensione cautelare dalla professione fino a 3 mesi, pubblicando “arbitrariamente atti di un procedimento penale” oppure non pubblicando le lettere di rettifica o di smentita dei cittadini/lettori. Il disegno di legge introduceva, nel contesto del Dlgs n. 231/32001, la responsabilità delle imprese editoriali “per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato” (il reato è quello previsto dall’articolo 684 Cp, che punisce “la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale“). Gli editori potrebbero arrivare a pagare da 25.800 a 232.500 euro di sanzione pecuniaria, a seconda della tiratura e della diffusione della testata.
L’applicazione del dlgs 231/2001 alle imprese multimediali in relazione alla violazione dell’articolo 684 del Cp (Pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale) potrebbe determinare una ingerenza (giustificata dai rischi delle sanzioni pecuniarie) degli editori nella vita e nella fattura dei giornali con conseguente compromissione dell’autonomia della professione di giornalista. Probabilmente questo era il vero obiettivo (“incartato” e sotto traccia) del disegno di legge del Governo Berlusconi. Le imprese multimediali italiane, così, sarebbero diventate simili a quelle americane, inglesi, tedesche e francesi nelle quali l’editore gioca un ruolo determinante nelle scelte quotidiane delle notizie da pubblicare. La normativa era soltanto apparentemente contro gli editori, ma in realtà mirava a dare agli stessi il “potere” di fare i giornali, riducendo il ruolo dei direttori e dei redattori a quello di impiegati di redazione.
I giornalisti devono difendere con determinazione la legge 69/1963, che, forte della deontologia elevata a norma, delinea, con l’aiuto dell’articolo 21 (II comma) della Costituzione, una professione indipendente, libera da “censure” e da “autorizzazioni”.
3. Il giornalista (come l’avvocato) diventi parte nel procedimento penale. Negli ultimi tempi si discute molto di “diritto all’informazione e riservatezza delle indagini” oppure di “doveri della Giustizia in rapporto alle libertà dell’informazione”. I magistrati come i giornalisti sono responsabili dell’informazione che esce dai Palazzi di Giustizia. Anche per i giudici il giornalismo deve essere inteso modernamente come servizio pubblico reso ai cittadini. I giudici, per la loro parte, devono concorrere con i giornalisti ad assicurare ai cittadini una informazione corretta, completa, improntata alla verità, soprattutto sui temi di utilità sociale e di rilievo pubblico. Non è possibile che si vada avanti in questo equivoco: alcuni giudici condannano i giornalisti quando diffondono “notizie incomplete, quindi false, quindi diffamatorie”; altri magistrati negano le notizie e così agendo mettono i giornalisti in una stretta tra il dovere di riferire e l’obbligo di essere corretti. Anche i giornalisti devono essere corretti e apparire corretti così come i magistrati e i giudici devono essere e devono apparire indipendenti. E’ questa l’etica di due professioni. La libertà dell’informazione è libertà di accesso alle fonti, è libertà di raccontare i fatti senza bisogno di far ricorso alla fantasia e ai ….condizionali. Fra fatti accaduti e fatti narrati deve esserci un nesso credibile. La sfera della responsabilità, quindi, è doppia: appartiene al giornalista, che scrive nel rispetto dell’etica professionale, e appartiene al giudice, custode delle notizie. La deontologia impone il rispetto della persona e della verità sostanziale dei fatti in un quadro di lealtà e buona fede al fine di rafforzare la fiducia dei lettori verso la stampa. Ma la sfera della responsabilità riguarda anche i giudici, i quali sono chiamati a rispettare il diritto dei cittadini a ricevere <informazioni e notizie tramite la stampa> scritte in maniera corretta, completa, obiettiva.
Merita un cenno la sentenza del Gip milanese Andrea Manfredi (Ordine Tabloid, n. 7/1994, pag 12) che ha assolto con la formula più ampia due giornalisti imputati del reato di diffamazione per aver pubblicato su “Panorama” del 4 ottobre 1992 i verbali d’interrogatorio d’un imputato di Tangentopoli. Scrive il Gip: “…Ciò sta a significare che una volta venuto meno l’obbligo del segreto secondo le previsioni dell’articolo 329 Cpp non vi è limite alcuno alla pubblicazione e diffusione del contenuto dell’atto del procedimento, così consacrandosi il diritto di cronaca su di esso, nel segno di un apprezzamento della prevalenza dell’interesse collettivo alla conoscenza delle vicende processuali e del controllo sociale della loro gestione, essenziale in un assetto ordinamentale ispirato a principi democratici… In definitiva, se l’articolista riporta il contenuto di atti del procedimento non più coperti da segreto, e ciò fa legittimamente non travisandoli, non aggiungendovi commenti volti alla denigrazione incivile, con l’uso di espressioni gratuite ed offensive, mantenendosi nell’ambito della obiettività, come è da ritenere sia avvenuto nel caso in questione, la condotta appare pienamente scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca (giudiziaria), specie se esso attiene a vicende di sicuro interesse generale“. La sentenza del Gip milanese riprende sostanzialmente la sentenza 16 giugno 1981 della Cassazione penale (Foro It., 1982, II, 313; Giur. It., 1982, II, 346) che dice: “Il diritto di cronaca può essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, purché la notizia pubblicata sia vera o almeno seriamente accertata, esista un pubblico interesse alla conoscenza dei fatti medesimi e la esposizione della notizia sia obiettiva, nel senso che non trasmodi in una incivile denigrazione che si risolva nell’offesa dell’altrui onore“.
I giornalisti non vogliono e non devono fare superinformazione (ma controinformazione) e non devono e non vogliono dare notizie di “padre ignoto“. Contro questi rischi si alza ammonitrice la voce di Walter Tobagi, del Tobagi dell’ultimo dibattito al Circolo della Stampa di Milano. Era il 27 maggio 1980. Un discorso ancora oggi attualissimo. Non dobbiamo confondere controinformazione e superinformazione, consapevoli anche che l’apparente controinformazione potrebbe essere “un servizio prestato a una superinformazione di cui sfuggono completamente fini e modalità”. Se cade in questo errore, diceva Tobagi, “il giornalista deve chiedersi se fa un servizio giornalistico o se fa un altro servizio, che nel caso specifico è assai meno nobile“. Il lettore non può essere destinatario di notizie di “padre ignoto”. Al lettore si deve anche dire la fonte che ha diffuso l’informazione “perché se non si fa questo i giornali rischiano di diventare degli strumenti che servono per combattere battaglie per conto terzi“.
I Pm non possono trincerarsi dietro i divieti quando i divieti a pubblicare non esistono più. È loro dovere, credo, dare a tutti i cronisti notizie complete o mettere i cronisti in condizione di rintracciare le parti processuali perché vicende di interesse pubblico siano ricostruite imparzialmente. La sfida è la correttezza delle cronache: un dovere, ripeto, da assolvere sia dai giudici, sia dai giornalisti. La sfida riguarda anche il Parlamento, che dovrebbe essere sollecitato ad apportare modifiche sostanziali ad alcuni articoli del Cpp. Le udienze davanti al Gip e al Gup dovranno essere pubbliche: le Camere non possono glissare su tale esigenza di trasparenza. I giornalisti, intermediari intellettuali tra i fatti e il pubblico, devono essere messi giuridicamente in condizione di poter estrarre copia delle richieste del Pm di rinvio a giudizio, dei provvedimenti del Gip, dei decreti che dispongono il giudizio, delle memorie e delle richieste delle parti, degli atti cui hanno diritto di assistere i difensori, del fascicolo del Pm, del fascicolo per il dibattimento, delle sentenze. I giornalisti, che lavorano per garantire ai cittadini il diritto di essere informati, rappresentano una parte nel processo penale e come tali devono godere dei diritti assicurati dall’ordinamento processuale al difensore. Il giornalista, quindi, come l’avvocato. Vanno rotti i rapporti equivoci tra giornalisti e Pm e anche quelli tra giornalisti e avvocati. In sostanza chiediamo di essere responsabilizzati al massimo livello. Se i giornalisti dovessero vedersi riconosciuti i diritti dei difensori, allora non avrebbero più attenuanti qualora le cronache dovessero risultare incomplete, quindi false e diffamatorie. Non rivendichiamo il diritto di avere tutte le “carte”, che fotocopiano gli avvocati, per diffamare i cittadini al riparo di possibili querele e azioni risarcitorie. Chiediamo le “carte” per poter raccontare i fatti e pubblicare le immagini dei protagonisti delle vicende quotidiane nel rispetto delle regole deontologiche e del Codice di deontologia sulla privacy. Vogliamo sfuggire alla morsa della mezza notizia=notizia falsa=notizia diffamatoria. Le “carte” saranno sempre utilizzate in maniera rigorosa e responsabile. “Il rispetto della persona e della dignità umana è il limite interno all’esercizio del diritto di cronaca” (Cassazione penale, sez. III, sentenza 23356/01).
Negli Stati Uniti il Congresso, in virtù del primo emendamento, non può fare leggi sul tema della libertà di stampa. I giornalisti, però, non sono liberi di scrivere ciò che credono e vogliono. Il primo emendamento ha solo un limite: che le notizie riportate corrispondano alla verità. Se un’impresa o un privato ritengono che la diffusione di una notizia li abbia danneggiati, devono provare in tribunale – e con il più elevato onere della prova – che il giornalista abbia mentito e che la stessa notizia falsa sia stata diffusa con «l’intento malizioso di cagionare un danno».
4. La riforma (abortita) del 2004 del reato di diffamazione a mezzo stampa. L’interdizione dalla professione (con il rischio per il giornalista di perdere lavoro e stipendio).
Parlo del progetto (abortito) di riforma del reato di diffamazione a mezzo stampa per tracciare i confini di ciò che i giornalisti non vogliono. La Camera dei deputati ha approvato nella seduta del 26 ottobre 2004 il disegno di legge relativo a “norme in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante“. Poi quel ddl si è arenato a Palazzo Madama. Le nuove norme prevedevano l’eliminazione della pena detentiva per tutti i delitti contro l’onore; la “cancellazione” della riparazione pecuniaria (una sorta di previsto solo per le diffamazioni a mezzo stampa); la riduzione ad un anno del termine di prescrizione dell’azione civile per danno alla reputazione; la possibile condanna del querelante al pagamento di una somma di denaro in caso di “lite temeraria”; il tetto “massimo” del danno non patrimoniale fissato a 30.000 euro. In particolare, per quanto riguarda l’aspetto penale del reato scompariva la sanzione del carcere sostituta, – nel caso di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato-, con la pena della multa da euro 5.000 a euro 10.000. L’offesa semplice a mezzo stampa, invece, è punita con la pena della multa da euro 3.000 a euro 8.000. In entrambi i casi di condanna e nell’ipotesi di recidiva “consegue la pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da un mese a sei mesi“. Oggi la pena accessoria dell’interdizione è una facoltà riservata al giudice penale, ma va detto che si contano al riguardo sentenze sporadiche.
La previsione dell’interdizione dalla professione (con il rischio per il giornalista di perdere lavoro e stipendio da uno a sei mesi nonché di perdere anche il lavoro in maniera definitiva come decisione dell’azienda editoriale verso un dipendente “inaffidabile”) portò ad affermare che quella riforma del reato di diffamazione a mezzo stampa non convinceva. Non è accettabile che il destino dei giornalisti, impegnati nella cronaca, sia consegnato in caso di recidiva nelle mani dei giudici. I cronisti lavorano “sul tamburo” e hanno, – soprattutto quando i fatti accadono in un’ora vicina alla chiusura del giornale -, un nemico implacabile: il tempo. Nella fretta può capitare di scrivere un aggettivo di troppo, di riferire una circostanza “a metà”, di collocare una persona in uno scenario negativo. Tali sfumature possono provocare una querela della parte, che si ritiene offesa. Pensiamo poi alle iniziative penali (intimidatorie?) di sindaci, ministri, assessori adottate a tutela della dignità dell’ente pubblico o della pubblica amministrazione. E’ vero: il reporter, con quella riforma, non avrebbe rischiato più la galera (da 1 a 6 anni, quando attribuisce un fatto “determinato” oppure da sei mesi a tre anni, quando riferisce in maniera generica). Se la poteva cavare nel massimo, come riferito, con una multa.
L’interdizione temporanea dalla professione, però, sarebbe stata applicata in modo automatico (e ci sarebbe stata anche una coda disciplinare obbligatoria con il Consiglio dell’Ordine chiamato a sanzionare il comportamento del “reo”). Nessun altro professionista (medico, avvocato, commercialista, etc) corre tale alea.
Il rischio dell’interdizione era reale anche per il direttore responsabile, qualora lo stesso fose stato chiamato a rispondere del reato di diffamazione “in concorso” con il suo cronista. I direttori, però, sono trattati in malo modo: finora rispondevano di omessa vigilanza (reato colposo), mentre in futuro avrebbero risposto in chiave dolosa, ma la pena sarebbe stata ridotta di un terzo rispetto a quella prevista per l’autore dell’articolo.
La Camera aveva respinto la proposta di far celebrare il processo davanti a un tribunale in composizione collegiale. L’abolizione del carcere e dell’udienza preliminare avrebbe comportato così che il giornalista sarebbe finito davanti a un giudice onorario, che non ha l’esperienza e la maturità di un magistrato di carriera. L’eventuale sentenza di condanna sarebbe stata corretta solo in appello, quando l’imputato sarebbe comparso di fronte a tre giudici togati. Tutto questo è collegato alla circostanza che il Pm avrebbe chiesto la citazione diretta a giudizio del giornalista. Oggi il filtro del Gip elimina almeno il 50 per cento dei procedimenti penali. Bisogna tener conto che nei processi per diffamazione vengono ricostruite anche vicende storiche di grande rilievo con personaggi – non solo giornalisti – spesso protagonisti della vita pubblica nazionale. Il dibattimento di fronte a un giudice monocratico di carriera offre garanzie e certezze che il giudice onorario non potrà mai assicurare.
L’eventuale multa di 5 mila euro e di 10mila euro non avrebbe esaurito il processo penale. E’ una condanna, che avrebbe avuto come seguito una causa civile per stabilire l’entità del danno (non solo morale). Il giornalista sarebbe entrato in una catena di montaggio giudiziaria dalla quale poteva uscire solo stritolato. Oggi le querele sono facili e abbondano. Raccogliere due, tre o quattro querele è probabilità facile. Quale cronista rischierà il posto dopo aver subito una prima condanna penale? Ecco perché questa riforma va fermata anche per evitare autocensure o cronache ricostruite al telefono o pantofolaie. La battaglia è un’altra: bisogna chiedere al Senato la cancellazione del reato di diffamazione a mezzo stampa. Le eventuali controversie per offese all’onore dovrebbero essere regolate soltanto in sede civile.
La nuova legge, però, offriva vie impossibili per sfuggire alla condanna penale e all’interdizione. “L’autore dell’offesa non è punibile se provvede, ai sensi dell’articolo 8, alla pubblicazione di dichiarazioni o rettifiche“. E se il direttore e l’editore rifiutano la pubblicazione della smentita? Al cronista non sarebbe rimasto che citare in giudizio il suo direttore e la sua azienda per chiedere al giudice in via d’urgenza un provvedimento con il quale ordini (al direttore e all’azienda) di pubblicare la smentita. E poi che accadrà nella vita professionale del cronista “ribelle”?
In sede civile, invece, “nella determinazione del danno derivante dalla pubblicazione ritenuta lesiva della reputazione o contraria a verità, il giudice tiene conto dell’effetto riparatorio della pubblicazione della rettifica, se richiesta dalla persona offesa“. La smentita avrebbe attenuato l’entità del risarcimento. C’è un contrasto, però, fra sfera penale e civile, che crea disuguaglianze di trattamento. In sede penale la smentita avrebbe neutralizzato il reato, mentre in sede civile la smentita avrebbe attenuato solo l’entità del risarcimento. Il problema potrebbe finire all’attenzione della Corte costituzionale, che prevedibilmente sarebbe stata chiamata a dirimere la questione del tetto del risarcimento fissato in 30mila euro, quando “il giudice procede alla liquidazione del danno in via equitativa“. Tale misura è volta ad eliminare le richieste milionarie, ma si può porre un limite al risarcimento in via equitativa? Ci si potrà rivolgere al giudice civile per il resto del risarcimento del danno patrimoniale o biologico?
Fa riflettere un articolo di Adolfo Beria di Argentine, già Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Milano, pubblicato sul “Corriere della Sera” del 12 aprile 1986 dal titolo: “Rapporti tra giustizia e stampa/Se al giornalista si toglie la penna“. La sintesi dell’articolo può essere questa: “L’interdizione professionale è contro la Costituzione”. Scrive Beria: “Giustamente, pertanto, alcuni giuristi italiani hanno fatto rilevare che queste interdizioni contrastano con l’art. 27 della Costituzione che vuole la pena finalizzata alla «rieducazione» del condannato e con l’art. 133 del codice penale che impone al giudice di «individualizzare», a tale fine, la sanzione. La natura essenzialmente e funzionalmente punitiva, a carattere afflittivo, retributivo e intimidatorio dell’interdizione professionale contrasterebbe, quindi con i moderni sistemi penali che tendono a supplire alla funzione della pena classica attraverso misure di moderna difesa sociale che corrispondano a sanzioni più complesse e polivalenti. (Mi sembrano questi i motivi ispiratori della scelta adottata dal progetto di codice penale francese che sopprime la pena dell’interdizione professionale). Forse la soluzione al problema sta in un migliore autocontrollo professionale, basato su precisi statuti che deleghino ad organismi interni il compito di pronunciare eventuali interdizioni, profondamente diverse per natura ed effetti. L’analisi giuridica può sì effettuare una delimitazione in materia, ma è un settore troppo vasto e complesso per essere disciplinato totalmente ed efficacemente dalle norme del diritto penale“.
5. Proposta di riforma della legge sulla stampa n. 47/1948 e in particolare del reato di diffamazione a mezzo stampa.
Oggigiorno sui giornalisti e sui giornali italiani pendono querele con richieste di risarcimenti per circa 3.500 miliardi di vecchie lire. Questa abnorme situazione, riconducibile in larga misura a iniziative strumentali, compromette la serenità dei giornalisti, con grave incidenza sul diritto di libera espressione del pensiero, essenziale in un regime democratico. Il clima di intimidazione che si è determinato costituisce un fattore di grave depressione culturale, anche in danno del pubblico. Si rende necessario ed urgente un adeguamento della normativa sulla stampa in vigore a salvaguardia dei principi e delle garanzie costituzionali. Queste le osservazioni sui vari problemi sul tappeto e queste le proposte concrete di modifica di alcuni articoli della legge sulla stampa, e dei codici civile e penale.
Una nuova legge sulla rettifica che incida sia in sede penale sia in sede civile. Il crescente numero di querele contro giornali e giornalisti rende necessaria una nuova legge sulla rettifica in caso di diffamazione a mezzo stampa. Il problema più significativo è risarcire l’onore delle persone lese e stabilire che la rettifica fatta nei termini previsti dall’articolo 8 della legge 47/1948 ha una funzione di risarcimento e che la stessa evita il procedimento penale e contiene il risarcimento civile. C’è bisogno di una legge di questo genere: i giornali potranno poi scegliere se rettificare o andare al processo penale con il rischio implicito di rischi civilistici.
La materia è complessa, perché si tratta di trovare un punto di equilibrio tra l’esigenza giuridica di tutelare l’identità della persona offesa e il diritto di giornali e giornalisti di riferire quel che accade ai cittadini, titolari a loro volta del diritto costituzionale all’informazione (corretta e completa) elaborato dalla Corte costituzionale e dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. In sostanza va affermato il principio secondo il quale la persona offesa che non abbia chiesto la pubblicazione di una rettifica o smentita della notizia lesiva non può chiedere il risarcimento del danno lamentato in conseguenza della stessa. Nel caso di rifiuto di pubblicazione di rettifica o smentita, sono civilmente responsabili per il risarcimento del danno, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore. Nel caso di pubblicazione di rettifica o smentita, la persone offesa può chiedere il risarcimento del danno qualora dimostri, in relazione alla gravità dell’illecito e alle circostanze, che l’adempimento non costituisca riparazione sufficiente.
L’obiettivo perseguito è quello di garantire alle persone offese la rettifica sui giornali (a costo zero); rettifica prevista, come riferito, dall’articolo 8 della legge sulla stampa. In caso di rifiuto della pubblicazione della rettifica o della smentita, il cittadino leso nei suoi diritti potrebbe rivolgersi al Presidente dei Consigli regionali dell’Ordine dei Giornalisti, il quale dispone in via d’urgenza, con decreto, che i direttori responsabili delle testate (scritte, televisive, radiofoniche e telematiche) edite nell’area di propria competenza territoriale pubblichino la rettifica, nei termini temporali e secondo le modalità previsti dall’articolo 8. In caso di mancato intervento da parte del Presidente dei Consigli regionali dell’Ordine dei Giornalisti e qualora, trascorso il termine di cui al secondo e terzo comma, la rettifica o dichiarazione non sia stata pubblicata, l’autore della richiesta di rettifica, (se non intende procedere a norma del decimo comma dell’articolo 21) può chiedere al tribunale civile, ai sensi dell’articolo 700 del codice di procedura civile, che sia ordinata la pubblicazione. Questa proposta conferisce al presidente dei Consigli dell’Ordine dei Giornalisti un potere tipico (paragiudiziario) delle autorità amministrative indipendenti.
Va parimenti affermato, per quanto riguarda gli articoli 595 del Cp e 13 della legge 47/1948 della stampa, che il procedimento penale è subordinato al rifiuto di pubblicazione della rettifica o della smentita secondo le modalità di cui all’articolo 8 della legge n. 47/1948 sulla stampa.
La «trappola» dell’articolo 2947 del Cc. Con la sentenza n. 5259/1984, la Corte di Cassazione ha stabilito che ogni cittadino può tutelare il proprio onore e la propria dignità in sede civile senza avviare l’azione penale. Ogni cittadino può agire in sede penale entro tre mesi dalla pubblicazione della notizia diffamatoria (art. 124 Cp). Il Parlamento non ha provveduto, dopo la sentenza, a coordinare il tempo per l’azione civile con quello previsto per l’azione penale. Così è rimasto in vigore l’articolo 2947 del Cc, in base al quale «il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in 5 anni dal giorno in cui il fatto si è verificato…In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile». Questa norma espone giornalisti ed aziende al rischio di vedersi citare in giudizio, anche a distanza di 7-10 anni, per fatti remoti e sui quali il giornalista non ha conservato alcuna documentazione. L’azione di risarcimento dovrebbe essere ridotta a 180 giorni dalla diffusione della notizia ritenuta diffamatoria.
La registrazione delle testate on-line o telematiche. L’articolo 5 della legge sulla stampa n. 47/1948 sulla registrazione delle testate scritte, già esteso (con l’articolo 10 della legge n. 223/1990) ai telegiornali e ai radiogiornali, dovrà recuperare l’articolo 153 della legge n. 388/2000 e l’articolo 1 (3° comma) della legge 62/2001, ricomprendendo anche i giornali che utilizzano la rete per la diffusione. Bisogna porre un argine alla nascita di siti, che pubblicano notizie irresponsabili, operando nell’anonimato.
Tornare all’antico: escludere il decreto penale per i reati perseguibili a querela come il reato di diffamazione a mezzo stampa. L’articolo 459 Cpp (Casi di procedimento per decreto), riscritto dalla legge 16 dicembre 1999 n. 479 sul giudice unico, riserva una sorpresa sgradita. Dice questo nuovo articolo: «Nei procedimenti per reati perseguibili di ufficio ed in quelli perseguibili a querela (come la diffamazione, ndr) se questa è stata validamente presentata e se il querelante non ha nella stessa dichiarato di opporvisi, il pubblico ministero, quando ritiene che si debba applicare soltanto una pena pecuniaria, anche se inflitta in sostituzione di una pena detentiva, può presentare al giudice per le indagini preliminari, entro sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro delle notizie di reato e previa trasmissione del fascicolo, richiesta motivata di emissione del decreto penale di condanna, indicando la misura della pena». Il decreto penale, con la condanna a una pena pecuniaria, è inappellabile. C’è da sperare che il Gip non accolga la richiesta del Pm. In precedenza non era previsto il decreto penale per i reati perseguibili a querela. Bisogna tornare all’antico e in fretta, escludendo il decreto penale per i reati perseguibili a querela come il reato di diffamazione a mezzo stampa.
6. Il progetto di riforma. Proposta di modifiche:
a. agli articoli 5, 8, 11, 12 e 13 della legge n. 47/1948;
b. all’articolo 595 Cp;
c. all’articolo 593 Cpp;
d. all’articolo 2947 Cc.

Legge n. 47/1948 sulla stampa
5. REGISTRAZIONE
Nessun giornale, periodico, telegiornale, radiogiornale oppure giornale telematico può essere pubblicato o trasmesso se non sia stato registrato presso la cancelleria del Tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi.
Per la registrazione occorre che siano depositati nella cancelleria:
1. una dichiarazione, con le firme autenticate del proprietario e del direttore o vice direttore responsabile, dalla quale risultino il nome e il domicilio di essi e della persona che esercita l’impresa giornalistica, se questa è diversa dal proprietario nonché il titolo e la natura della pubblicazione;
2. i documenti comprovanti il possesso dei requisiti indicati negli artt. 3 e 4;
3. un documento da cui risulti l’iscrizione nell’Albo dei giornalisti, nei casi in cui questa sia richiesta dalle leggi sull’ordinamento professionale;
4. copia dell’atto di costituzione o dello statuto, se proprietario è una persona giuridica.
Il presidente del tribunale o un giudice da lui delegato, verifica la regolarità dei documenti presentati, ordina, entro quindici giorni, l’iscrizione del giornale o periodico in apposito registro tenuto dalla cancelleria.
Il registro è pubblico.
Emendamento
L’emendamento è costituito dalla parole scritte in corsivo.
8. RISPOSTE E RETTIFICHE
Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale.
Per i quotidiani, le dichiarazioni o le rettifiche di cui al comma precedente sono pubblicate, non oltre due giorni da quello in cui è avvenuta la richiesta, in testa di pagina e collocate nella stessa pagina del giornale che ha riportato la notizia cui si riferiscono.
Per i periodici, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate non oltre il secondo numero successivo alla settimana in cui è pervenuta la richiesta, nella stessa pagina che ha riportato la notizia cui si riferisce.
Le rettifiche o dichiarazioni devono fare riferimento allo scritto che le ha determinate e devono essere pubblicate nella loro interezza, purché contenute entro il limite di trenta righe, con le medesime caratteristiche tipografiche, per la parte che si riferisce direttamente alle affermazioni contestate.
I emendamento
La persona offesa che non abbia chiesto la pubblicazione di una rettifica o smentita della notizia lesiva non può chiedere il risarcimento del danno lamentato in conseguenza della stessa.
Nel caso di rifiuto di pubblicazione di rettifica o smentita, sono civilmente responsabili per il risarcimento del danno, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore.
Nel caso di pubblicazione di rettifica o smentita, la persone offesa può chiedere il risarcimento del danno qualora dimostri, in relazione alla gravità dell’illecito e alle circostanze, che l’adempimento non costituisca riparazione sufficiente.

Ragione dell’emendamento
1. L’istituto della rettifica deve essere disciplinato in modo che la stessa presenti funzioni risarcitorie ed eviti il risarcimento civile.
Secondo l’emendamento proposto la responsabilità civile del giornalista/articolista, del direttore responsabile, del proprietario e dell’editore dovrebbe essere subordinata a) alla mancata pubblicazione o smentita o rettifica; ovvero b) alla mancata richiesta della smentita o rettifica da parte della persona offesa.
La persona offesa sarebbe dunque arbitra di chiedere o non chiedere la rettifica; e sarebbe portata a non chiederla per poter agire contro i responsabili per il risarcimento del danno.
La soluzione normativa non sembra ragionevole, ponendosi in contrasto con l’articolo 1227 Cc secondo cui il risarcimento non é dovuto per i danni che l’interessato avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza.
2. La rettifica deve perciò considerarsi per la persona offesa un onere da assolvere per eliminare o ridurre le conseguenze pregiudizievoli della notizia lesiva. L’inosservanza dell’onere rivela negligenza, ovvero l’intendimento (immeritevole di tutela) di ottenere il risarcimento di un danno evitabile o quanto meno suscettibile di attenuazione. Sembra perciò ragionevole ricollegare all’inosservanza l’esclusione a priori della sanzione risarcitoria.
3. La questione del risarcimento del danno dunque si pone soltanto se sia chiesta la rettifica. Si profila così l’alternativa, tra il rifiuto all’adempimento e la pubblicazione.
Nel caso di rifiuto nulla questio: sussiste pienamente la responsabilità civile dell’autore del reato, del direttore responsabile, del proprietario della pubblicazione e dell’editore.
Nel caso di ottemperanza, invece, compete al giudice di merito valutare se, in relazione alla gravità dell’illecito e alle circostanze, la misura riparatoria possa considerarsi tale da esaurire l’esigenza riparatoria, o se residui un danno risarcibile. L’onere della prova di un danno residuale è a carico dell’interessato. In alternativa l’onere della prova potrebbe essere posto a carico della controparte con 1a seguente formulazione: “Nel caso di pubblicazione (..) i responsabili non sono tenuti al risarcimento del danno qualora dimostrino, in relazione alla peculiarità della notizia e alle circostanze, che l ‘adempimento costituisca riparazione sufficiente“.
II emendamento
Il Presidente dei Consigli regionali dell’Ordine dei Giornalisti dispone in via d’urgenza, con decreto, che i direttori responsabili delle testate (scritte, televisive, radiofoniche e telematiche) edite nell’area di propria competenza territoriale, su richiesta della parte offesa, pubblichino la rettifica di cui al comma 1 di questo articolo, nei termini temporali e secondo le modalità previsti dai commi 2 e 3 di questo stesso articolo. In caso di marcato intervento da parte del Presidente dei Consigli regionali o interregionali dell’Ordine dei Giornalisti e qualora, trascorso il termine di cui al secondo e terzo comma, la rettifica o dichiarazione non sia stata pubblicata o lo sia stata in violazione di quanto disposto dal secondo, terzo e quarto comma, l’autore della richiesta di rettifica, (se non intende procedere a norma del decimo comma dell’articolo 21) può chiedere al Tribunale civile, ai sensi dell’articolo 700 del Cpc, che sia ordinata la pubblicazione.
La mancata o incompleta ottemperanza all’obbligo di cui al presente articolo è soggetta alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 3mila a 6mila euro. (La sentenza di condanna deve essere pubblicata per estratto nel quotidiano o nel periodico o nell’agenzia. Essa, ove ne sia il caso, ordina che la pubblicazione omessa sia effettuata).
Ove il direttore responsabile, senza giustificato motivo, ometta o ritardi l’adempimento del decreto del presidente del Consiglio regionale o interregionale, il Consiglio regionale o interregionale competente, informato tempestivamente, avvia l’azione disciplinare prevista dall’articolo 48 in relazione all’articolo 2 della legge 3 febbraio 1963 n. 69.
11. RESPONSABILITA’ CIVILE
1. Per i reati commessi col mezzo della stampa, in caso di rifiuto di pubblicazione di rettifica o smentita secondo le modalità di cui all’articolo 8, sono civilmente responsabili per il risarcimento del danno, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore.
2. In deroga a quanto previsto dall’articolo 2947 del Codice civile, l’azione civile del risarcimento del danno conseguente ad eventuale diffamazione perpetrata su mezzi di comunicazione si prescrive nel termine di 180 giorni dalla diffusione della notizia ritenuta diffamatoria.
Emendamento
L’emendamento è costituito dalla parole scritte in corsivo.
Ragione dell’emendamento
Occorre sancire un termine di prescrizione particolarmente breve, in deroga alle disposizioni generali, per evitare che la persona offesa si riservi di agire dopo molto tempo dal fatto lesivo, quando la relativa documentazione non è più disponibile o è andata perduta.
12. RIPARAZIONE PECUNIARIA
Eliminare la sanzione della riparazione ai sensi dell’articolo 12 della legge sulla stampa.
Ragione dell’emendamento
Il risarcimento del danno risentito dalla persona offesa, sul piano morale e materiale, è tale da ripristinare esaurientemente la sfera patrimoniale e non patrimoniale della medesima. L’ulteriore sanzione della c.d. riparazione si colloca a metà strada tra pena e risarcimento sfuggendo all’una e all’altra classificazione. La misura, ispirata ad una particolare severità punitiva nei confronti del responsabile, è in realtà priva di causa e ingiustificabile.
13. PENE PER LA DIFFAMAZIONE
Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si applica, in caso di rifiuto di pubblicazione di rettifiche o smentite secondo le modalità di cui all’articolo 8, la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a euro 500.
Codice penale
595 Cp. Diffamazione.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.200 euro.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2 mila euro.
Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, in caso di rifiuto di pubblicazione di rettifica o smentita secondo le modalità di cui all’articolo 8 l. n. 47/1948, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 1.500 euro.
Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate [c.p. 29, 64].
Emendamento
L’emendamento è costituito dalla parole scritte in corsivo.
Ragione dell’emendamento
Si rinvia alla ragione esposta a proposito della rettifica.
Codice di procedura penale
Aggiungere un quinto comma all’articolo 459 Cpp:
«Il procedimento per decreto non è ammesso nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa con o senza l’attribuzione di un fatto determinato».
Ragione dell’emendamento all’articolo 459:
1. Il principio di uguaglianza di trattamento vuole che sia riaffermata la regola della verifica in aula.
2. La sentenza di condanna deve essere considerata soprattutto nella sua consistenza di affermazione della responsabilità civile per il risarcimento del danno. L’inammissibilità dell’appello priva l’interessato della possibilità di una revisione nel merito, in una. materia caratterizzata da un elevato tasso di opinabilità. Ed è paradossale che ciò avvenga quando, nell’alternativa tra multa e reclusione, il giudice di merito opti per la pena meno gravosa. L’imputato dovrebbe augurarsi, per proporre appello, che il giudice dimostri particolare severità ed irroghi la pena della reclusione.

Il presidente dell’OgL
prof. Francesco Abruzzo

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