Consigli dell’Ordine dei giornalisti possono processare gli iscritti che si avvalgono del diritto di critica in maniera forte e penetrante?

Abruzzo: la risposta è no perché un Ordine che viola l’art. 21 della Costituzione va sciolto in fretta. La Consulta ha parlato chiaro sin dal 1968


dalla newsletter del sito Franco Abruzzo.it

I Consigli hanno un cancro al loro interno: il rischio della “dittatura della maggioranza” (che reprime e schiaccia le minoranze).

analisi di Franco Abruzzo

Alcuni studenti universitari mi hanno posto il problema dei poteri disciplinari dei Consigli regionali dell’Ordine dei Giornalisti. La domanda è questa: possono i Consigli “processare” i giornalisti che si avvalgono del diritto di critica in maniera forte e penetrante? La risposta è negativa: “La libertà di informazione e di critica, definita ‘insopprimibile” dalla legge professionale, non può essere messa sotto accusa in sede disciplinare. Se ciò accadesse, sarebbe un fatto gravissimo tale da provocare un intervento del Ministero della Giustizia diretto a sciogliere il Consiglio che ha commesso un simile abuso. Più in generale un evento simile darebbe fiato a quanti chiedono la morte dell’Ordine”. Il dibattito riguardava il diritto alla riservatezza dei personaggi pubblici o che hanno acquisito notorietà anche televisiva. La dottrina ritiene che i personaggi pubblici abbiano meno diritti di tutela dell’uomo della strada. “Chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica” (Tribunale di Roma, 13 febbraio 1992, in Dir. Famiglia, 1994, I, 170, n. Dogliotti, Weiss). Su questa linea è una sentenza dei supremi giudici: “In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto di cronaca può essere esercitato, quando ne possa derivare lesione all’altrui reputazione, prestigio o decoro, soltanto qualora vengano dal cronista rispettate le seguenti condizioni: a) che la notizia pubblicata sia vera; b) che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale; c) che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obbiettività. Il diritto di cronaca non esime di per sé dal rispetto dell’altrui reputazione e riservatezza, ma giustifica intromissioni nella sfera privata dei cittadini solo quando possano contribuire alla formazione della pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti per la collettività. (Ha precisato la Corte che, se anche le vicende private di persone impegnate nella vita politica o sociale possono risultare di interesse pubblico quando possano da esse desumersi elementi di valutazione sulla personalità o sulla moralità di chi debba godere della fiducia dei cittadini, non è certo la semplice curiosità del pubblico a poter giustificare la diffusione di notizie sulla vita privata altrui, perché è necessario che tali notizie rivestano oggettivamente interesse per la collettività)” (Cass. pen., sez. V, 10 dicembre 1997, n. 1473; Riviste: Cass. Pen., 1999, 3135, n. Angelini; Rif. ai codici: CP art. 51, CP art. 595).

Anche l’avviso di garanzia è pubblicabile, ma prima deve essere portato a conoscenza degli interessati. Così ha deciso l’11 luglio 1997 il Garante della privacy. L’avviso di garanzia previsto dal diritto processuale penale è paragonabile all’avviso disciplinare di cui si avvalgono gli Ordini professionali, quando ricevono un esposto contro gli iscritti all’Albo.

I Consigli degli Ordini devono o dovrebbero, comunque, leggere e rileggere questo passo della sentenza 11/1968 con la quale la Corte costituzionale ha ritenuto legittima la legge 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista:

“La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti ai Consigli non siano tali da compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura democratica del Consigli, che di per sé rappresenta una garanzia istituzionale non certo assicurata dalla legge precedentemente in vigore (D.L. Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla quale la tenuta degli albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate per circa venti anni ad un organo di nomina governativa; e la possibilità del ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell’azione giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L’uno e l’altro concorrono sicuramente ad impedire che l’iscritto sia colpito da provvedimenti arbitrari. Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo, se la legge stessa prevedesse, sia pure implicitamente, una responsabilità del giornalista a causa del contenuto dei suoi scritti e ammettesse una corrispondente possibilità di sanzione, perché in tal caso la libertà riconosciuta dall’art. 21 sarebbe messa in pericolo e l’art. 45 – norma di chiusura dell’intero ordinamento giornalistico – risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la definizione degli illeciti disciplinari, come è inevitabile, non si articola in una previsione di fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la materia trova un preciso limite nel principio fondamentale enunciato dalla stessa legge nell’art. 2. Se la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa, giammai l’esercitarla che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali l’Ordine è chiamato a vigilare”.

La sentenza è limpida. I Consigli dell’Ordine dei Giornalisti ne tengano conto. Andar contro questa sentenza significa arrivare in fretta alla chiusura dell’Ordine stesso.
Un Ordine che viola l’art. 21 della Costituzione va sciolto in fretta. La Consulta ha parlato chiaro.

I Consigli dell’Ordine dei Giornalisti farebbero bene a meditare su queste due sentenze, che pubblichiamo qui di seguito:

1) La sentenza 25138/2007 della V sezione penale della Cassazione (che ha assolto Vittorio Feltri) segna una svolta radicale nella storia giudiziaria del nostro Paese. Il vento di Strasburgo ha scosso i Palazzi della Capitale italiana: così per i giornalisti è aria nuova. La Cassazione ha chiarito che “la libertà di manifestazione del pensiero garantito dall’art. 21 della Costituzione e dall’art. 10 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d”interesse pubblico, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. “I giornali sono cani da guardia della democrazia e delle istituzioni (anche giudiziarie)”. Si afferma finalmente in Italia la visione americana del ruolo della stampa. La sentenza recupera, ed era ora, la giurisprudenza della Corte dei diritti dell’Uomo.

2) Il diritto della stampa di informare su indagini in corso e quello del pubblico di ricevere notizie su inchieste scottanti prevalgono sulle esigenze di segretezza. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo che, nella sentenza del 7 giugno 2007, ha condannato la Francia per violazione della libertà di espressione (ricorso n. 1914/02). Questo perché i tribunali interni avevano condannato due giornalisti che avevano pubblicato un libro sul sistema di intercettazioni illegali attuato durante la Presidenza Mitterand. Nell’opera, oltre che stralci di dichiarazioni al giudice istruttore e brogliacci delle intercettazioni, era contenuto l’elenco delle persone sottoposte ai controlli telefonici. Se i giudici francesi hanno fatto pendere l’ago della bilancia verso la tutela del segreto istruttorio, punendo i giornalisti, la Corte europea ha invece rafforzato il ruolo della stampa nella diffusione di fatti scottanti, soprattutto quando coinvolgono politici. In questi casi, i limiti di critica ammissibili sono più ampi, perché sono interessate persone che si espongono volontariamente a un controllo sia da parte dei giornalisti, che della collettività.

I Consigli hanno un cancro al loro interno: il rischio della “dittatura della maggioranza” (che reprime e schiaccia le minoranze). E’ illuminante la lettura del saggio di Alessandro Catalani sull’argomento (“Gli Ordini e i collegi professionali nel diritto pubblico”, Giuffrè, 1976). Il principio maggioritario impedisce che nei Consigli siano presenti voci dissonanti in rapporto ai voti effettivi di ciascun gruppo “ufficioso”.

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