La politica sta richiedendo agli italiani uno sforzo economico immane. In due anni, per pareggiare il bilancio pieno di buchi che, dagli anni Ottanta, continua a imbarcare acqua senza mai affondare definitivamente (e forse l’affondo definitivo sarebbe l’unica maniera per far comprendere agli italiani – politici e comuni cittadini – la situazione critica in cui si trovano), l’Italia dovrà trovare 54,2 miliardi di euro, secondo la versione finalmente definitiva della manovra, approvata ieri sera dal Senato.
Le borse europee hanno risposto bene alla fine della telenovela, tant’è che in Italia, così come in Europa, si è tirato un grosso sospiro di sollievo. Finalmente è fatta, e adesso “ha da passà a nuttata!” Nel clima di rovente sollievo, però, le “piccolezze” sono passate un po’ in secondo piano: non si può mica pretendere di mettere tutti d’accordo quando davanti a noi ci sono due anni in cui si dovranno risparmiare 54 miliardi di euro. Tra queste piccolezze vi è l’asta per il dividendo interno. Tra tanti settori da colpire per far cassa, infatti, uno che certamente non può essere toccato è quello – che vale tanto quanto un’industria – del conflitto di interessi di Berlusconi. Come avevamo reso noto nei giorni scorsi, infatti, il senatore del PD Vincenzo Vita, con l’appoggio di altri esponenti dell’Idv e del Terzo Polo, aveva presentato un emendamento alla manovra finanziaria, da discutere in Commissione Bilancio, circa la conversione del beauty contest – l’asta non competitiva che regala pubblicamente i 6 multiplex del cosiddetto dividendo interno – in una normale asta al rialzo che, nelle previsioni, avrebbe fatto guadagnare alle disperate casse dello Stato un minimo di 1,2-1,5 miliardi di euro, di base d’asta, che sarebbero potuti salire fino a 3 miliardi (anzi, secondo alcuni fino a 6) con i rilanci. Una cifra importantissima, che avrebbe permesso al Ministero dell’Economia di evitare tagli dolorosissimi e tasse impopolari, semplicemente rendendo redditizia la normale distribuzione delle frequenze digitali avanzate. Danno e beffa, in Italia, sono consequenziali, si sa, perciò non solo l’emendamento è stato bocciato ma dal 6 settembre è ufficiale la griglia di partenza dei partecipanti all’asta. Come ci si aspettava, le frequenze che sarebbero dovute essere destinate ai nuovi entranti nel mercato finiranno, secondo i parametri decisi dal MSE-Com (vince chi ha più mezzi), ai soliti noti: i colossi nazionali già oligopolisti nell’era analogica. All’interno delle sei frequenze che saranno assegnate, tra l’altro, in pochi sottolineano come il peso relativo di ciascuna sia decisamente differente. Come scrive nel suo blog l’esperto del Sole 24 Ore Marco Mele, di fatti, i canali 55 e 58 UHF, che sono stati serviti su un piatto d’argento a Rai e Mediaset, sono gli unici isofrequenziali, assieme al 54 del gruppo C. Oltretutto, ricorda ancora Mele, i criteri con cui sarà scelta la Commissione esaminatrice delle domande per l’assegnazione dei diritti, sono ancora ignoti. Eppure, le procedure per la nomina sono già in corso, ma riguardo i parametri di scelta regna il più stretto riserbo. Ad ogni modo, poco male: se i termini di confronto sono presenza sul territorio, potenza di segnale (Mediaset ha 3100 impianti digitalizzati in tutt’Italia, rispetto ai 1700 della Rai e i 900 di Ti Media) e infrastrutture, non ci sarà Commissione che tenga. In Italia, quindi, tra moniti di Napolitano, sfiducia degli investitori, liti di Palazzo, scontri di coalizione e scioperi generali, si sta consumando l’ennesima puntata dello scempio messo in atto da questo governo di compari che bada esclusivamente ai propri interessi economici personali. E dato il clima d’allarme riguardo altre problematiche, tutto ciò sta avvenendo, felici loro, sostanzialmente nell’ombra. “Ce l’abbiamo messa tutta. – ha detto malinconicamente Vincenzo Vita, alla notizia della bocciatura da parte della Commissione Bilancio dell’emendamento da lui presentato – Se non ci fosse il conflitto di interessi del premier Berlusconi…”. Già, se non ci fosse. (G.C. per NL)