Storia della radiotelevisione italiana. Morto il giudice che oscurò a Torino negli anni ’80 Canale 5

E’ morto nella notte nella clinica torinese in cui era ricoverato per una malattia, il giudice Giuseppe Casalbore, del tribunale di Torino, uno dei magistrati piemontesi più conosciuti ed apprezzati.

A lui venivano affidati casi giudiziari importanti, complessi, che spesso conquistavano le prime pagine dei giornali. Per esempio, negli anni Ottanta fu uno dei pretori che oscurarono le tv Fininvest. Di seguito ricordiamo la vicenda, che avrebbe condizionato il percorso politico italiano con l’approviazione dei famosi decreti "Salva-Berlusconi". Il 31 gennaio 1986, dopo nove giorni di oscuramento, si riaccendevano alle 15,00 gli schermi delle tre reti Fininvest (Canale 5, Rete 4 e Italia 1). Poche ore prima, il Tribunale della libertà di Torino aveva accolto il ricorso contro il sequestro dei programmi nazionali delle emittenti disposto dal pretore Casalbore. "Non è stato commesso alcun reato – si leggeva nell’ordinanza – non è stato violato l’art. 195 del Codice postale che vieta di irradiare trasmissioni al di là dell’ambito locale. Il decreto che liberalizza le trasmissioni deve intendersi come transitorio e non temporaneo e quindi non può essere scaduto ed è ancora in vigore (…) Il trasmettere in contemporanea con il sistema delle cassette preregistrate non equivale a una diretta. La diretta è l’unica, vera forma di televisione: informa sugli avvenimenti mentre si verificano ed è quindi la sola idonea ad influenzare l’opinione pubblica. Però, essendo le tv private escluse dai notiziari, è assai difficile comprendere come esse possano mettere in pericolo il monopolio pubblico (…) In materia di emittenza privata c’è un vuoto legislativo che deve essere riempito con una nuova legge" . Scriveva a riguardo il compianto giurista radiotelevisivo Alberto Venturini su Millecanali nel marzo 1986 : “Il Tribunale della Libertà di Torino (…) ha creato uno dei rarissimi precedenti in materia d’interconnessione “via etere” disancorato da qualsiasi colorazione fittizia della realtà”. Per il primo avvocato milanese specializzato in diritto radiotelevisivo, il provvedimento giudiziale piemonte ribadiva l’esistenza basilare “dello spirito informativo della legge Berlusconi” diretta ad introdurre nell’ordinamento italiano un sistema misto di emittenza pubblica e privata anche in ambito nazionale, nonché il pieno vigore del principio contenuto nell’art. n. 1 L. 10/1985 che assumeva gli impianti di radiodiffusione già esistenti valorizzandoli quali indicatori e presupposti idonei per la stesura del Piano nazionale d’assegnazione delle frequenze. Non solo, per Venturini il provvedimento di riesame determinava il superamento della “assurdità di poter ritenere la scadenza del termine dei famosi sei mesi anche per i ponti radio tra studio di emissione e trasmettitori, dopo che si era attuata la loro legittimazione”, rimarcando, tra l’altro, la grossa portata innovativa della legge 10/1985 (la cd. "Legge Berlusconi", conversione di uno dei tre D.L. approvati dal Governo Craxi per consentire alle reti Fininvest le trasmissioni in interconnessione) che aveva depenalizzato, se pur con certi limiti, l’art. 195 del Codice postale, divenuto inapplicabile come sanzione penale per la fattispecie di impianti e trasmissioni via etere travalicanti l’ambito locale. E ciò, per Venturini, era tanto importante “per la chiara impossibilità dell’interprete di definire quale fosse tale ambito, anche e soprattutto in considerazione dell’art. 2 della legge 10/1985”, con il quale il legislatore aveva abbandonato il concetto di “ambito locale” inserendo quello di “bacino di utenza”, demandando al piano nazionale di assegnazione delle frequenze la relativa determinazione e “cancellando, alla fine, i parametri che sul piano indicativo erano stati enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 202/1976 per tentare detta identificazione”. Parametri che, per il giurista, “venivano manipolati ed utilizzati, anche fuori luogo, dagli interpreti”, sicché, in considerazione di tale nuovo carattere del bacino di utenza e l’abbandono di quello dell’ambito locale, s’imponeva la necessità di un preciso intervento del legislatore, poiché “ciò che deve essere garantito è il principio sacrosanto del pluralismo del sistema misto, il divieto di situazioni di monopolio e di oligopolio ed in un equo contemperamento delle varie esigenze politiche ed economiche”. Venturini terminava quindi il suo articolo invitando “a non dimenticare che l’emittenza privata è stata introdotta dalla Corte Costituzionale soprattutto a garanzia della libera espressione del pensiero ed il conseguente diritto, cardine nella nostra democrazia, potrà essere limitato, non certo da interpretazione di alta alchimia giudiziale, ma solo e rigorosamente per legge” e che “ben altro spazio sarebbe occorso per questa decisione coraggiosa e coerente del Tribunale di Torino, che sottolinea il principio della piena legittimità dell’interconnessione strutturale ed anche ultra regionale”, prospettando come “le emittenti private che ne avranno immediati benefici saranno quelle radiofoniche che per necessità tecniche ed economiche non possono non utilizzare un’interconnessione strutturale. Ciò vale soprattutto per le emittenti radiofoniche a livello ultraregionale”. Le reti nazionali o ultralocali avevano, quindi, vinto una battaglia, ma la guerra – era più che evidente – era ancora in corso ed al centro del contendere vi era sempre la definizione di “ambito locale”, concetto giuridico che, come si è visto, ormai a tutti gli operatori ed agli studiosi della materia sembrava essere strutturalmente connesso a quella chimera tecnico-giuridica che era il Piano Nazionale d’Assegnazione delle Frequenze. Come poi sia andata a finire non è il caso di ricordarlo. (M.L. per NL)

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