Web. Calo di attenzione verso il web da parte di utenti sempre più annoiati da contenuti replicati. Ma l’I.A. non è la causa: è lo specchio 

l'i.a.

Alzi la mano chi non sta registrando una progressiva noia nella consultazione del web.
La sensazione che molti vivono è infatti quella di perdere sempre più rapidamente di vista ciò che vorremmo sapere o di non riuscire a conseguire il risultato voluto con responsi della cui affidabilità dubitiamo, forse  inconsciamente per impossibilità di identificare la fonte (umana).
Una sottile angoscia che non riesce a formarsi compiutamente, ma che suggerisce che l’internet che conoscevamo – fatta di persone, parole e opinioni – sta velocemente scomparendo dietro un muro di contenuti automatici e replicati.
Non è un collasso tecnologico, beninteso, ma culturale: il trionfo dell’automazione sul contributo umano.
Ma la cosa più grave è che il vero rischio non è l’I.A., ma la (nostra) resa al conformismo algoritmico.

Sintesi

La sensazione di noia e di déjà vu che accompagna sempre più spesso la navigazione online è il sintomo di un fenomeno profondo: il web sta diventando una macchina che replica sé stessa.
L’internet vivo, fatto di persone, parole e opinioni, sta lasciando spazio ad un ecosistema dominato da algoritmi, automazioni e contenuti sintetici generati dalla I.A.
Non si tratta di un collasso tecnologico, ma culturale: la rete non si spegne per mancanza di innovazione, quanto per eccesso di automatismo e conformismo.
La Dead Internet Theory — vecchia teoria (risale al 2021, quindi un’era geologica fa, tecno-culturalmente parlando) secondo cui la rete sarebbe ormai pressoché completamente controllata da bot e popolata di contenuti artificiali — trova oggi riscontro in una realtà quotidiana: articoli scritti da modelli linguistici, commenti realistici prodotti da A.I., video e post costruiti per performare più che per comunicare. Il risultato è un web che, ancorché non pilotato da poteri oscuri, è comunque omologato e autoreferenziale. Un ecosistema dove l’originalità diventa un’anomalia.
Per altro verso, l’economia dell’attenzione privilegia la gratificazione istantanea — la “catena industriale della dopamina” — trasformando l’informazione in emozione e la riflessione in reazione.
In questo scenario, l’I.A. non è la causa, ma lo specchio della nostra stanchezza cognitiva, che amplifica comportamenti già consolidati, riproducendo all’infinito ciò che funziona.
La vera crisi, pertanto, è antropologica: internet, nato per connettere, ora replica; la rete parla, ma non ascolta. L’abbondanza di contenuti crea una saturazione che svuota di significato ogni messaggio: tutto è accessibile, ma nulla è autentico.
Ma quale è la via d’uscita? Certamente non rigettare la tecnologia, ma almeno restituirle un controllo di qualità umano.
Serve un nuovo “umanesimo digitale”, basato su trasparenza, riconoscibilità (certificata) delle fonti e tutela dei contenuti autentici.

Non è una suggestione: il web sta veramente morendo

Non è più una suggestione da forum o una curiosità da cybernauti disillusi o da neo complottisti: sempre più osservatori, analisti e studiosi dei media e del web concordano su un punto: internet, nella sua forma originaria di spazio vitale per il pensiero e la relazione umana, sta morendo.

L‘I.A. sta prendendo il controllo della somministrazione dei contenuti

Il web sta soffrendo di un male oscuro; ma non nel senso tecnico – i server funzionano, le piattaforme prosperano, i contenuti si moltiplicano –, quanto in un disagio più profondo. Internet si è trasformato in un ecosistema dove l’umanità è progressivamente sostituita da automatismi, sintesi, repliche e manipolazioni. In breve l’I.A. lo sta manipolando.

Dead Internet Theory

Non vogliamo certo prestare il fianco ai complottisti della Dead Internet Theory, la teoria del complotto post-Covid (è nata nel 2021) secondo cui il web sarebbe ormati gestito da bot e congestionato da contenuti generati automaticamente, con lo scopo di rendere marginale l’attività umana per manipolare la popolazione.

Web uroborico

Nessun complotto globale quindi, anche se non si può negare che con l’I.A., da un anno a questa parte, la rete sia diventata fortemente autoreferenziale: un sistema che genera incessantemente sé stesso, come fosse un uroboro, imitando la vita senza più contenerla davvero.

Lo studio Amazon

E’ più di una sensazione: uno studio di Amazon Web Services AWS condotto nel 2024 ha evidenziato che dei contenuti su internet tradotti in più di tre lingue, il 57% è di matrice automatica. E secondo le stime, il trend di contenuti della Generative A.I. sarà del circa il 90% entro il 2026.

La fine del web esperienziale

Un quarto di secolo fa, internet era un organismo pulsante: ogni blog, forum o chat rappresentava una microgalassia di esperienze, idee e contraddizioni.
Oggi, aprire un social network o un motore di ricerca significa accedere a un flusso standardizzato: decine di contenuti che si somigliano in modo inquietante, nati da combinazioni automatiche di dati, frasi e immagini.

Antropologia

La differenza non è solo estetica: è antropologica. Il live web era un’estensione della mente collettiva; il bot web è un algoritmo che replica i suoi stessi output.

Content farming

L‘I.A. generativa, le piattaforme di content farming, i sistemi di automazione SEO e gli spider social hanno progressivamente colonizzato il linguaggio umano, creando un ambiente dove l’originalità è un’anomalia, non una norma.

Il web come riflesso della nostra stanchezza cognitiva

Dietro questa metamorfosi non c’è solo la tecnologia, ma un cambiamento psicologico profondo.
Gli utenti hanno progressivamente smesso di cercare significato, sostituendolo con la gratificazione istantanea.
È la cura dopaminica del contenuto breve: pochi secondi di video, una frase ad effetto, una reaction…e via.

L’economia dell’attenzione non si alimenta più di informazione, ma di emozione

Gli algoritmi, progettati per massimizzare il tempo di permanenza, ripropongono ciò che funziona emotivamente, anche se è vuoto di senso. Così nascono interi universi di loop cognitivi: meme ripetuti all’infinito, musiche remixate, video identici caricati da account diversi, testi che sembrano scritti da copie di copie. Questa omologazione produce una sensazione diffusa di déjà vu digitale: ogni volta che apriamo un’app, abbiamo l’impressione di aver già visto tutto.

L’I.A. non è la causa: è lo specchio

È facile attribuire la colpa all’intelligenza artificiale. Tuttavia, l’I.A. non ha fatto altro che amplificare un comportamento umano preesistente. Le piattaforme ci hanno abituati da tempo a cercare scorciatoie cognitive: il post che riassume, il video che spiega, la risposta pronta. L’I.A. è semplicemente il compimento logico di questa tendenza.

Pleroma

Oggi sistemi automatici generano articoli di cronaca, recensioni di prodotti, sceneggiature di video, canzoni, perfino “commenti realistici”. L’I.A. è diventata la nuova forza lavoro del web, sostituendo l’uomo non perché sia più intelligente, ma perché è più prevedibile. Il paradosso è che siamo stati noi a insegnarle la prevedibilità: l’algoritmo ci osserva, impara cosa clicchiamo e ce lo restituisce all’infinito. Il risultato è un pleroma che riflette solo i nostri impulsi più meccanici, non le nostre idee.

Dalla rete delle persone alla rete dei riflessi

Internet era nata per connettere; ora replica. Un tempo i blog nascevano per esprimere, i forum per discutere, i social per condividere esperienze. Oggi la maggior parte delle interazioni è guidata da automazioni che generano contenuti sintetici calibrati per apparire “umani”. Siti di news che pubblicano testi scritti da modelli linguistici, profili social che rispondono automaticamente ai commenti, piattaforme di streaming che montano video in tempo reale combinando frammenti preesistenti.

Il grande sonno digitale

Il risultato è una rete popolata da simulacri comunicativi, in cui l’interazione tra persone reali diventa marginale rispetto alla comunicazione automatica tra sistemi. È il grande sonno digitale: la rete parla, ma non ascolta più.

L’illusione del contenuto infinito

Eppure il web sembra più ricco che mai; ma questa abbondanza è ingannevole. Come in un supermercato pieno di diverse confezioni dello stesso prodotto, la varietà è solo apparente. La sovrapproduzione di contenuti genera un effetto di saturazione che rende ogni messaggio indistinto. Nel momento in cui tutto è accessibile, nulla è più significativo. Persino il linguaggio tende a uniformarsi: i titoli, le call to action, i sottotitoli dei video obbediscono a pattern algoritmici basati su metriche predittive. Non si scrive per comunicare, ma per essere indicizzati; non si crea per emozionare, ma per performare.

La catena industriale della dopamina

La vera moneta del web non è più il dato, ma la reazione. Ogni like, ogni visualizzazione, ogni click alimenta un sistema economico che misura il valore in base alla capacità di generare attenzione.
Le piattaforme hanno costruito un modello di business fondato sulla ripetizione del piacere immediato: più un contenuto è superficiale e virale, più diventa remunerativo. Le macchine producono stimoli, gli esseri umani reagiscono. È la perfetta simbiosi tossica dell’era digitale. La profondità penalizza, la velocità premia.

Il web non muore per mancanza di tecnologia

Quindi, Internet non sta collassando perché invaso dalle I.A.: sta crollando su sé stesso perché noi, utenti ed editori, abbiamo smesso di usarlo per pensare. Abbiamo accettato di delegare la complessità a sistemi automatici, rinunciando al caos creativo che aveva reso il web un luogo vivo. La progressiva scomparsa dell’imperfezione — l’errore di battitura, il post scritto di getto, la recensione personale — è il sintomo di una rete che si standardizza fino all’asfissia.
L’umanità digitale si misura nella dissonanza; e, oggi, la dissonanza è programmata per scomparire.

Rimettere l’uomo al centro del digitale

La sfida del futuro non è tecnologica, ma culturale: se la rete deve sopravvivere come luogo di pensiero e relazione, deve tornare ad accogliere l’errore, la spontaneità, la voce vera. Non serve rigettare l’automazione, ma ridefinire i confini tra umano e sintetico.

Conoscere la fonte per capire

L’intelligenza artificiale può essere uno strumento straordinario se impiegata per amplificare la creatività, non per sostituirla. Ma perché questo accada, bisogna recuperare una consapevolezza critica dell’ecosistema digitale: sapere cosa leggiamo, chi lo ha scritto e perché. La trasparenza — non l’efficienza — è la nuova frontiera dell’etica digitale.

La responsabilità dei media e delle piattaforme

Nel contesto informativo, la responsabilità dei media diventa pertanto cruciale. Se le piattaforme continuano a privilegiare l’algoritmo dell’engagement a scapito dell’autenticità, la qualità dell’informazione verrà inevitabilmente compromessa.
Occorre introdurre criteri di “verifica d’origine” dei contenuti, etichettare i materiali generati artificialmente e preservare spazi editoriali realmente umani.

Content creator umani certificati

Per gli editori, i broadcaster, i publisher e i content creator, questo significa tornare a presidiare il valore dell’identità e del pensiero critico, distinguendo il contenuto autentico da quello sintetico attraverso un bollino di certificazione.
In un mondo di automazioni, l’unicità umana diventa il vero vantaggio competitivo.

Un nuovo umanesimo digitale

Di buono c’è che il destino del web non è segnato: come ogni infrastruttura culturale, può rigenerarsi se viene re-umanizzata. Ciò, però, richiede un nuovo patto tra tecnologia e società: uno human-centered web dove il valore non è la quantità di dati, ma la qualità delle connessioni. Un ecosistema dove la creatività umana, con le sue imperfezioni e contraddizioni, torni a essere la linfa del sistema, non la sua anomalia.

Quando le macchine parlano troppo, il silenzio diventa rivoluzionario

Internet non morirà – come in alcuni film di fantascienza – per un blackout tecnologico, ma per saturazione di rumore. Eppure, una via d’uscita esiste: ricominciare a scrivere, pensare, interagire davvero. Scegliere la complessità invece della reazione, l’argomentazione invece del like, la voce invece del filtro. Il futuro del web dipenderà da una scelta tanto semplice quanto radicale: continuare a generare rumore, o tornare a comunicare.

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