Cassazione penale: l’ascolto delle frequenze dei Cc è reato, condannati tre giornalisti

Eppure generazioni di cronisti hanno usato gli scanner per sentire le conversazioni in chiaro tra le pattuglie operanti e i loro comandi


Franco Abruzzo.it

Roma, 29 ottobre 2008. I giornalisti non possono, in nome del diritto di cronaca, ascoltare le frequenze radio sulle quali comunicano le pattuglie di polizia e carabinieri. Il dovere di informare fedelmente e tempestivamente l’opinione pubblica «può scriminare il reato di diffamazione» ma non quello di interferenza nelle comunicazioni delle forze dell’ordine. Lo sottolinea la Cassazione – sentenza 40249 – rendendo note le motivazioni per le quali lo scorso tre giugno ha confermato le pesanti condanne a un anno e tre mesi di reclusione per il direttore e un giornalista del giornale telematico Merateonline, e a sei mesi per un collaboratore della stessa testata e del quotidiano La Provincia di Lecco. Sulla macchina dei due cronisti, e nella sede di Merateonline, erano stati sequestrati gli apparati ricetrasmittenti che captavano le frequenze dei carabinieri, in particolare quelle del comando provinciale”. Senza successo gli avvocati difensori hanno sostenuto – innanzi ai supremi giudici – che “le comunicazioni tra la centrale operativa e le pattuglie delle forze dell’ordine non sono connotate da segretezza essendo diffuse in chiaro per aria attraverso onde elettromagnetiche, per cui non sarebbero tutelate costituzionalmente e penalmente”. (ANSA).

Cassazione – Sezione quinta – sentenza 3 giugno – 28 ottobre 2008, n. 40249

Presidente Fazzioli – Relatore Pizzuti – Ricorrente Brambilla e altri

Motivi della decisione

Con sentenza del 15.5.2007 la corte d’appello di Milano, in riforma della sentenza assolutoria del tribunale di Lecco in data 9.11.2004, dichiarava Brambilla Claudio, De Salvo Daniele ed Alfano Fabrizio colpevoli i primi due (A) del reato di cui agli artt. 110 81 cpv., 617 co. 1 e 3, 617 bis co. 1 e 2, 623 bis c.p. ed il terzo (B) del reato di cui agli artt. 110, 617 co. 1 e 3, 623 bis c.p. e, ritenuta la continuazione e concesse a tutti gli imputati le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, condannava il Brambilla ed il De Salvo alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione per ciascuno e l’Alfano alla pena di mesi sei di reclusione.
Al Brambilla, direttore responsabile del giornale interattivo “Merate on Line”, e al De Salvo, dipendente dello stesso giornale, era stato contestato, in concorso tra loro, di avere installato apparati e strumenti al fine di intercettare comunicazioni o conversazioni telefoniche tra altre persone e di avere, mediante tali apparati, fraudolentemente, preso cognizione delle comunicazioni e delle conversazioni tra le centrali operative delle Forze di Polizia e le pattuglie mobili sul territorio; mentre all’Alfano, collaboratore del predetto giornale interattivo e corrispondente esterno del quotidiano “La Provincia di Lecco” era stato contestato di avere, in concorso con il De Salvo, mediante un apparato radio ricetrasmittente a modulazione di frequenza munito di antenna ed un apparato radioricevente anch’esso munito di antenna, fraudolentemente, preso cognizione delle comunicazioni e delle conversazioni tra la centrale operativa del comando compagnia carabinieri di Merate e le pattuglie mobili sul territorio.
Avverso la summenzionata sentenza della corte d’appello di Milano gli imputati proponevano, mediante il comune difensore, ricorso per cassazione.
Essi chiedevano l’annullamento della sentenza impugnata, deducendo:
1) Inosservanza ed erronea applicazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza dei reati contestati. Le comunicazioni tra la centrale operativa e le pattuglie delle forze dell’ordine non sarebbero connotate da segretezza, essendo diffuse “in chiaro” per aria attraverso onde elettromagnetiche, per cui esse non sarebbero tutelate costituzionalmente e penalmente. La segretezza, peraltro, costituirebbe requisito implicito del perfezionamento dei reati contestati.
2) e 3) Inosservanza ed erronea applicazione di legge, nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla affermazione della responsabilità degli imputati. La corte d’appello non avrebbe dimostrato la effettiva sussistenza dei fatti contestati, la loro realizzazione da parte di ciascun imputato e la ricorrenza del dolo.
4) Inosservanza ed erronea applicazione di legge e carenza di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento dell’esimente del diritto di cronaca.

Il ricorso deve essere rigettato.

Il primo motivo non è fondato.

Il problema posto con tale motivo è stato già affrontato da questa Corte Suprema, la quale ha chiarito che integra gli estremi del reato di cui all’art. 617 bis c.p. l’installazione di un apparecchio radioricevente idoneo ad intercettare le trasmissioni della centrale operativa delle forze dell’ordine (Cass. Pen. Sez. V, 15.1.2008, n. 5299, Rv. 239115; Cass. Pen. Sez. V, 6.5.2004, n. 25488, Rv. 228895).
Conseguentemente, ricorre, nella specie, anche il contestato reato di cui all’art. 617 co. 1 e 3 c.p..

Anche il secondo ed il terzo motivo sono privi di fondamento.

La realizzazione dei reati in questione da parte degli imputati è dimostrata dal sequestro di apparati ricetrasmittenti, idonei a captare le comunicazioni della centrale operativa dei carabinieri, all’interno dell’autovettura con cui il De Salvo e l’Alfano si stavano portando sul luogo di un intervento dei carabinieri e nei locali del giornale “Merate on line” diretto dal Brambilla. La sentenza impugnata evidenzia che gli imputati “non negavano che gli strumenti sequestrati venivano utilizzati per l’attività giornalistica” e che il dolo era desunto “dalla tipologia dell’apparecchiatura illegittimamente installata, descritta dai testi come idonea ad impedire o intercettare conversazioni su frequenze riservate al Ministero della Difesa e in particolare utilizzate dal comando provinciale dei carabinieri”.

Il quarto motivo è parimenti infondato.

Il dedotto esercizio del diritto di cronaca, sussistendone i presupposti, può scriminare il reato di diffamazione, ma non i reati contestati.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese del procedimento.

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