Cina: la libertà d’espressione vale meno di una patente

Il Dipartimento stampa e propaganda del Partito ha varato un nuovo sistema di “censura a punti”: 12 punti per ogni testata, chi li perde chiude i battenti


Il centocinquantanovesimo posto (su 167 totali) nella classifica di Reporters sans frontiéres sulla libertà di stampa, evidentemente, non preoccupa minimamente il governo della Repubblica popolare cinese, che, con l’ultima normativa varata in materia, andrà a contendere, probabilmente, l’ultima posizione a Paesi come Corea del Nord, Iran e Birmania. Infatti, come se non bastassero le decine di giornalisti incarcerati per “rilevazione di segreti di Stato” (che, forse, sarebbe meglio qualificare come “rivelazione di magagne di Stato”), come non bastasse la censura parziale della rete internet (Google, Wikipedia ed altri siti internazionali sono delle chimere per i cinesi…), ecco l’ennesima trovata del governo per mettere sotto silenzio i propri detrattori: un sistema innovativo ed originale per “misurare” la libertà d’espressione delle testate o, per meglio dire, per limitarne le possibilità d’esprimere le proprie idee. Dodici punti, dopodichè il giornale chiude per sempre. Dodici punti di libertà, dodici possibilità di dire la verità, poi il governo pone il veto e addio libertà d’espressione. Questa inquietante trovata del Dipartimento stampa e propaganda del Partito comunista cinese non è che l’ultima di una serie di misure repressive che vanno a colpire violentemente la libertà d’espressione del Paese più popoloso del globo. Negli anni ottanta si era assistito ad una piccola ma significativa svolta democratica per la stampa cinese: l’autofinanziamento (tramite pubblicità e copie vendute) aveva reso le testate più libere di esporre i mali del Paese, di alimentare l’autocoscienza della popolazione, di aprire gli occhi delle gente meno acculturata (specie nelle sterminate campagne del nord della Cina) e far capire loro che anche il governo ha i suoi grossi, grossissimi lati oscuri. Chi aveva bilanci in positivo sopravviveva, chi andava in rosso era, inevitabilmente, destinato a morire: nulla di più democratico. Ma il governo non ci stava, troppa concorrenza (si erano toccate le 2000 testate quotidiane che stampavano, giornalmente, oltre cento milioni di copie) e quindi troppa difficoltà di controllo. Ritorno al vecchio sistema di finanziamenti pubblici ed alla stampa di partito, di Stato (che in Cina è, grossomodo, la stessa cosa). Dodici punti, quindi, ai nastri di partenza per ogni testata e tre punti in meno ad ogni “sgarro”, ad ogni pubblicazione inopportuna, sgradita al governo; addirittura sei, nove o dodici (il totale, quindi chiusura) nei casi più gravi: la libertà di stampa e d’espressione, quindi, si può misurare e vale meno di una patente (per cui i punti sono venti), o meglio, è possibile misurare la non libertà d’espressione, l’impossibilità di mostrare ai cinesi la Cina ed il mondo per quello che sono (certo, neanche negli Stati definiti più democratici la gente è in grado di assumere totalmente questa consapevolezza a causa del controllo più o meno indiretto dei governi sugli organi di diffusione dell’informazione). Ricorrendo ad un esempio, se quest’articolo fosse stato scritto, oggi, in Cina, questa testata domani non esisterebbe più. (G.C. per NL)

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