Diffamazione – I limiti del diritto di critica all’attività giudiziaria

Cassazione penale Sentenza, Sez. V, 20/01/2009, n. 2066


Ipso News – Matteo Bellina, Dottore di ricerca in Scienze Penalistiche nell’Università degli Studi di Trieste

Il diritto di critica giudiziaria è più limitato rispetto al diritto di critica politica o sindacale, stante la diversità dei contesti e l’interesse a ridurre il tasso di conflittualità processuale.

Il caso concreto affrontato dalla pronuncia in commento vede gli imputati, entrambi avvocati, tratti a giudizio per rispondere del delitto di diffamazione realizzato mediante l’invio di un esposto al vicepresidente del CSM, al Ministro della Giustizia ed al presidente del Tribunale, col quale definivano «odiosi e disumani» i provvedimenti adottati da un magistrato nei confronti di un loro assistito.

Quest’ultimo, in stato di custodia domiciliare, aveva chiesto di presenziare alla veglia funebre del genitore e di partecipare ai funerali dello stesso; il magistrato aveva autorizzato la partecipazione del ristretto alle esequie, negando invece (per di più senza motivare) l’autorizzazione per la veglia funebre.

Entrambi gli imputati venivano assolti in appello, avendo il giudice ravvisando gli estremi dell’eccesso colposo nell’esercizio del diritto di critica, stante il superamento del limite della continenza per l’imprudenza dovuta allo stato emotivo.

Gli imputati ricorrevano allora in cassazione, insistendo per una pronuncia ampiamente liberatoria, in virtù dell’applicazione della scriminante dell’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p., assumendo che le censure erano formalmente corrette ed indirizzate, in ogni caso, al provvedimento e non al magistrato che lo aveva redatto.

L’esposto, a detta degli imputati, lungi dal mirare al dileggio del magistrato, era volto a sollecitare l’intervento delle autorità preposte alla funzione disciplinare, nel legittimo esercizio del diritto di reagire ad un provvedimento che essi ritenevano iniquo, anche ai sensi di quanto previsto dall’art. 7 del codice deontologico degli avvocati.

La Corte di Cassazione, pur non mettendo in discussione il fatto che anche i provvedimenti giudiziari possano essere oggetto di critica, anche aspra, in ragione della opinabilità degli argomenti che li sorreggono, non ha però ritenuto ammissibile che le critiche medesime possano assumere modalità «virulente», concretanti il dileggio di colui che tali provvedimenti ha redatto.

Il diritto di critica – continuano i giudici – non deve farsi «strumento di livore», né può tradursi in «censura rancorosa», dovendo viceversa «costituire espressione di meditato pensiero, che ne filtri le istintive e facili asperità».

In concreto l’attributo di «odioso, disumano, sconcertante, gravemente e gratuitamente contrario al senso di umanità» qualifica irreversibilmente in maniera assai negativa il magistrato, additato come persona priva di ogni sensibilità, crudele e indifferente alle più tristi evenienze della vita, anche nell’esercizio della delicata professione.

Del tutto privo di rilevanza il “distinguo” effettuato dalla difesa tra il provvedimento criticato ed il magistrato che lo ha emanato, laddove l’uno è indeclinabile manifestazione dell’altro.

Parimenti da respingere l’estensione dei criteri di operatività enucleati dalla giurisprudenza in tema di critica politica e sindacale, all’ambito della critica giudiziaria, considerata la diversità dei contesti. La critica giudiziaria invero conosce limiti più stringenti considerato il fatto che una diversa interpretazione più “lassista” gioverebbe solo ad elevare il tasso di conflittualità nella dialettica processuale, con esiti perniciosi per la serenità dei soggetti implicati e la definizione dei procedimenti trattati.

I giudici hanno poi ritenuto irrilevante il richiamo all’art. 7 del codice deontologico evocato dalla difesa: esso pur sottolineando la doverosità della tutela, energica e rigorosa, dei diritti della persona patrocinata, non vale a fondare, in tema di reati contro l’onore della persona, né un’ulteriore causa di giustificazione, né una ragione di deroga ai limiti fissati dalla giurisprudenza in tema di diritto di critica.

Nemmeno appare possibile invocare nel caso di specie la speciale causa di non punibilità di cui all’art. 598 c.p., poiché le espressioni offensive sono contenute in un esposto mirante all’instaurazione di un procedimento disciplinare a carico di un magistrato, nell’ambito del quale gli esponenti non possono essere considerati “parti”.

(Cassazione penale Sentenza, Sez. V, 20/01/2009, n. 2066)

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