Diritto penale. Onore, diffamazione e risarcimento del danno non patrimoniale

Secondo il Dizionario Enciclopedico Italiano, Istituto Treccani (Roma, 1970), “l’onore, in senso ampio, è la dignità personale che si riflette nella considerazione altrui, in senso più ristretto e positivo, è il valore morale, il merito della persona, non tanto in sé, ma in quanto conferisce alla persona stessa il diritto alla stima e al rispetto da parte degli altri”.

L’onore è un concetto elastico, in quanto suscettibile di diverse interpretazioni a seconda del tempo e del luogo in cui deve essere collocata la definizione, nonché di difficile definizione unitaria data la sua suddivisibilità in molteplici categorie quali l’onore minimo proprio di ogni persona, e l’onore specifico o qualificato proprio di una determinata categoria sociale o professionale. Una prima definizione si basa sul concetto del c.d. “onore sentimento”, inteso sia quale sentimento che il soggetto ha verso sé stesso, sia come la stima che gli altri soggetti identificano in esso. Tale interpretazione, tuttavia, è stata da più parti criticata poiché pecca di eccessiva soggettivizzazione, facendo così dipendere la lesione del bene onore dall’opinione altrui o dallo stesso soggetto offeso, discostandosi così dal principio di riconoscibilità oggettiva dell’esistenza dell’offesa del diritto penale (De Cupis, I diritti della personalità). Secondo altri autori, che rappresentano la dottrina più accreditata, l’onore è un concetto morale che trae fondamento dagli articoli 2 e 3 della Costituzione e nel quale si possono ritrovare le caratteristiche dell’inviolabilità e uguaglianza. Questa corrente di pensiero considera l’onore quale bene giuridico complesso che racchiude in se un elemento esterno e uno interno: la considerazione dei terzi, intesa come buona reputazione che il soggetto ha acquisito presso la collettività, e il sentimento del soggetto medesimo quale coscienza della propria dignità personale (De Cupis, I diritti della personalità). Con sentenza numero 7635 del 30 marzo 2010, la Cassazione ha ribadito il principio secondo cui si debba tutelare, oltre che la buona reputazione dell’individuo (ossia la stima che si è guadagnato all’interno di una certa collettività), anche il rispetto sociale minimo, inteso come assenza o comunque non aggravamento di sentimenti ostili verso una reputazione in qualche modo già compromessa. In altri termini, nessun soggetto è legittimato ad aggravare la reputazione altrui, anche se quest’ultima risulta essere già danneggiata. L’onore o il decoro sono tutelati dagli articoli 594 “Ingiuria” e 595 “Diffamazione” del codice penale, e l’elemento distintivo tra le due fattispecie è la presenza o meno della persona dell’offeso. La buona fama di cui gode il soggetto presso la collettività – come tratto dall’opera di De Cupis – costituisce un presupposto indispensabile affinché il soggetto medesimo possa crescere nel contesto sociale ed addivenire ad una posizione adeguata. In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da diffamazione, tuttavia, sia la corte di Appello con sentenza 14 febbraio 2005, sia la Cassazione nella sentenza sopra citata, hanno ribadito che non si può procedere a risarcimento ove non vi sia la prova dell’offesa all’onore. Infatti, una cosa è la prova dell’avvenuta comunicazione del fatto offensivo, altra cosa è la prova del danno ingiusto che da questa ne sia conseguito. In base a questo nuovo orientamento, anche in presenza di fattispecie diffamatorie tramite mass-media, il risarcimento del danno non patrimoniale “non può essere considerato in re ipsa”, ma deve essere concesso in presenza di un effettivo accertamento del danno, “in considerazione delle conseguenze che il fatto ha determinato nella sfera personale del soggetto leso (sotto il profilo del turbamento psichico), e della ripercussione negativa sulla vita sociale e relazionale” del soggetto (Tribunale di Milano, sentenza 581 del 15 gennaio 2009). (M.C. per NL)

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