Giovanni Spampinato. Il delitto di Ragusa (27 ottobre 1972): il figlio del giudice e due pistole per uccidere il giornalista curioso

Il Corriere della sera di oggi dedica due pagine alla storia di una morte annunciata dovuta a cause che, a distanza di trentacinque anni, rimangono ignote o quasi


da Franco Abruzzo.it

di Paolo Di Stefano

VOLTAIRE HA SCRITTO CHE CIÒ’ CHE CHIAMIAMO CASO NON PUÒ’ ESSERE ALTRO CHE LA CAUSA IGNOTA DI UN EFFETTO NOTO. NELLA STORIA DI GIOVANNI SPAMPINATO C’È POCA CASUALITÀ, MA LA DINAMICA È QUELLA. L’EFFETTO DI TUTTO, ALMENO DA UN CERTO MOMENTO IN POI, QUALCUNO L’AVEVA PREVISTO: LA SUA MORTE VIOLENTA RIASSUNTA IN UNA DOMANDA CHE I SICILIANI CONOSCONO BENE, «MA CU TU FA FFARI? » (MA CHI TE LO FA FARE?).

L’avevano messo in guardia, ma il paradosso è che lui continuò a cercare la causa di quella che sarebbe stata la sua fine. E c’era arrivato molto vicino. Così, la sua si limita a essere la storia di una morte annunciata dovuta a cause che, a distanza di trentacinque anni, rimangono ignote o quasi. Un caso provocato da un altro caso. Un delitto fatto apposta per cancellare un altro delitto, dice qualcuno. Ma torniamo a Voltaire: l’effetto è noto. Dunque non si può che partire da lì e cioè dalla fine. Dal 27 ottobre 1972, quando, verso le undici di sera, un trentenne bussa furiosamente al portone del carcere giudiziario di Ragusa: «Vengo a costituirmi perché ho ucciso una persona e ora voglio dormire». Il reo confesso, occhiali, borsello in una mano e rivoltella Smith &Wesson nell’altra, è Roberto Campria, figlio del presidente del Tribunale della città. (Alquanto sconvolto, il Campria si sedette su un gradino portandosi la testa tra le mani, ma non disse altro, avrebbe dichiarato l’appuntato Antonio Costa). La vittima è lì a due passi, rantola ancora, con sei colpi di rivoltella tra pancia e costato (un colpo gli ha frantumato l’omero), sparatigli a bruciapelo, da non più di 15 centimetri. È il giornalista Giovanni Spampinato, 25 anni, piegato sul volante della sua Cinquecento bianca ferma di fronte al carcere, la portiera destra, ad apertura controvento, completamente spalancata. Morirà prima di arrivare all’Ospedale Civile. Sul pavimento anteriore dell’auto viene trovata una pistola automatica Erma Werke, nei dintorni i bossoli insanguinati. L’assassino ha sparato con due pistole, per non sbagliare. (Non è facile sparare contemporaneamente con le due mani,mettendo a segno tutti i colpi, anche se a brevissima distanza: solo in seguito ad un intenso allenamento è possibile riuscire a tanto, ha detto il pm Tommaso Auletta).

La provincia «scema»

Spampinato aveva una grave miopia, i suoi occhiali da vista, con lenti affumicate e montatura metallica bianca, sono finiti sotto il sedile del passeggero. Sul sedile posteriore sono rimasti il sacchetto vuoto di una macelleria, un libro dell’antropologo Antonino Uccello e una borsa in pelle nera. Nel cassetto del cruscotto c’è di tutto: tre bobine per mangianastri (Rapsodia in blu di Gershwin, il Capriccio italiano e la Patetica di Tchajkovskij, un Canzoniere siciliano). Forse i gusti di Spampinato, raffinati e anacronistici insieme, sono tutti lì. Ci sono anche due mini-bottiglie di Vecchia Romagna e Petrus, dei bicchieri di plastica, un bloc notes, dei bulloni, otto Muratti, un fischietto di canna di bambù, un pettine di plastica, un rullino Kodak a colori, una biro, una lametta da barba usata, una medaglia di bronzo del campionato di calcio studentesco 1967. Dietro la spalliera, una serie di vecchi ritagli. In caserma, dopo qualche minuto arriva il maresciallo Pietro Nocera, che vede il Campria ancora con la testa tra le mani seduto sullo stesso scalino: «Cosa ho fatto, cosa ho fatto ». Lo aiuta a sollevarsi, lo interroga nel suo ufficio: «Mi ha tormentato per otto mesi, ero morto per otto mesi e l’ho dovuto ammazzare. Però adesso mi dispiace perché era giovane». L’omicida dormicchia appoggiato alla scrivania. Ha ingurgitato nel pomeriggio qualche pastiglia di Neurinase, un sedativo. Il Dott. Prof. Francesco Pisana dirà di aver già riscontrato nel suo paziente «una nevrosi ansiosa reattiva con tendenza depressiva». Si tende subito a far passare l’omicidio come l’effetto di un’esplosione di furore, ma troppi indizi conducono altrove. Visti nelle fotografie che compaiono sui quotidiani il giorno dopo, Campria e Spampinato si somigliano. Portano entrambi grossi occhiali neri alla Elvis Costello, capelli abbondanti ben pettinati, basette lunghe, barba poco rasata. Sono però due tipi opposti. Giovanni appartiene a una famiglia contadina di San Michele di Ganzaria (Catania). In una pagina di diario ricorda le vacanze estive in campagna con i genitori e i due fratelli, i rari motori che percorrevano quelle strade, le Topolino, le Giardinette e le 1100, i campi di girasole, le mucche, le serate a fare la ricotta, «l’odore di terra bagnata dagli acquazzoni estivi». Suo padre Giuseppe era stato impiegato all’Ente Comunale di Assistenza a Ragusa, dopo aver fatto la resistenza in Dalmazia come maggiore dei partigiani e aver contribuito poi alla fondazione del Partito comunista locale, di cui sarebbe diventato vicesegretario. Giovanni è comunque un figlio ribelle, che al Partito preferisce il movimentismo antifascista, se è vero che a soli 17 anni pronuncia il suo primo comizio per Nuova Resistenza. Lettore accanito di Gramsci e di Marx, poi di Sartre e Marcuse, partecipa alle fiammate del Sessantotto in una città benestante e sonnacchiosa, capoluogo della cosiddetta «provincia babba», la provincia «scema» non ancora contaminata dalla mafia. Corre in soccorso ai terremotati del Belice, si appassiona alla dottrina sociale della Chiesa, si avvicina all’Arci e alla Fuci, collabora al quindicinale L’opposizione di sinistra e poi al periodico cattolico Il Dialogo. È un intellettuale serio, si documenta, si informa. (Leggeva leggeva leggeva, ricorda oggi il fratello Alberto che da qualche anno si ostina a cercare la verità, insieme con Emanuela, l’ex fidanzata di Giovanni diventata sua moglie).
Gli mancano pochissimi esami per laurearsi in Filosofia a Catania quando nel ’69 Vittorio Nisticò, direttore dell’Ora, lo arruola come corrispondente. Si interessa al lavoro dei sindacati, ma sono le sue inchieste sui movimenti neofascisti a rivelare la stoffa del cronista. Comincia a collaborare anche per l’Unità. Nel ’71 decide di presentarsi come indipendente nelle liste provinciali del Pci ma non viene eletto. Spampinato rimane deluso, sa però che il suo autentico impegno è nella scrittura. E se ne accorgeranno in molti, a Ragusa, quando comincia a indagare sulle trame nere che in quegli anni si addensano nella «provincia babba», diventata in breve un crocevia tra malavita organizzata, contrabbando e coaguli di strategie neofasciste. La domanda che gli amici gli rivolgono (e che qualcuno pensa tra sé) è: «Ma cu tu fa ffari?». Chi te lo fa fare? Il figlio del presidente del Tribunale è una specie di dandy, camicie vistose, ampi gesti delle braccia. Roberto Campria ha una passione irresistibile per le armi: ne detiene sei, tra fucili (due) e pistole (quattro), non dichiarate. Un paio, particolarmente idonee a uccidere, le compera venti giorni prima di sparare a Spampinato. Lo ucciderà con quelle dopo aver passato il pomeriggio a giocare a briscola e a ramino al Piccolo Club di via Fonte. Diploma di geometra con un impiego all’Istituto di igiene mentale della Provincia conquistato grazie al padre. I colleghi del foro, specie per la sistemazione procurata illecitamente a Roberto, non vedono di buon occhio quel giudice di Caltagirone, Saverio Campria, che aveva esercitato lo stesso ufficio a Sciacca facendo nascere molte perplessità nella Commissione Parlamentare Antimafia. Roberto frequenta giri di amici poco limpidi. Tra questi, un ingegnere di 47 anni, play boy, ex costruttore, già consigliere dell’Msi, ora attivo nel commercio d’antiquariato. Si chiama Angelo Tumino ed è entrato trionfalmente nel jet set cittadino durante la lavorazione di Divorzio all’italiana, il film girato da Germi a Ragusa nel ’61: in quei giorni sui quotidiani Tumino compariva biancovestito alla guida della sua spider bianca, circondato da un nugolo di attrici. Nel pomeriggio del 26 febbraio 1972 viene trovato cadavere in una trazzera di contrada Ciarberi, a una decina di chilometri dalla città. Probabilmente il suo corpo di cento chili è stato trascinato già stecchito in quel luogo nascosto, dove «il Signore perse le scarpe ». Tumino è uscito di casa il giorno prima, un venerdì di pioggia e freddo, verso le 15.15. Abita con il figlio Marco di dieci anni, nato da una relazione occasionale: uscendo, gli dice che tornerà in serata. Le cose andranno diversamente. Sarà una vicina, Elisa Ilea, a rivelare di averlo visto allontanarsi con altri due tizi (Mi sono affacciata al balcone di casa mia per ritirare la biancheria (…). Ho avuto modo di vedere sulla via Matteotti l’ingegnere Tumino, il quale unitamente ad altre due persone, si stava avviando a piedi verso la via Armando Diaz). La descrizione porta a identificare i due personaggi senza grandi dubbi. Il primo dovrebbe essere Giovanni Cutrone, 47 anni, di Chiaromonte ma residente a Roma da decenni, legato ad ambienti di estrema destra, fondatore al suo paese di una sezione dell’Uomo Qualunque, anche lui impegnato nel traffico d’arte e più volte finito in carcere per truffa. Il profilo dell’altro coincide con quello di Roberto Campria, ma gli inquirenti sembrano fare orecchio da mercante. Convocheranno otto persone da sottoporre alla Ilea per un riconoscimento all’americana e tra loro non ci sono né Cutrone (che nel frattempo si rende irreperibile) né Campria. Con gli identikit della signora concordano quelli di altri testimoni. Per la giustizia, però, è come se nulla fosse. Non ci sarà nessun confronto tra i testimoni e il figlio del magistrato. Il procuratore Agostino Fera finirà nell’occhio del ciclone: dicono che troppe cose non vede e non sente. È qui che il destino di Giovanni incrocia per la prima volta quello del Campria. Spampinato sarà il primo a segnalare, sull’Ora, i sospetti che si addensano sul figlio di un’autorità di giustizia come Saverio Campria, superiore in grado degli stessi magistrati che si dedicano alla pratica Tumino. Un’anomalia che avrebbe suggerito per lo meno il trasferimento dell’istruttoria ad altre sedi. Invece il caso resta a Ragusa. Sarà sempre il giovane giornalista Spampinato a rivelare che, subito dopo l’omicidio, Campria si trovava in casa del morto a rovistare tra le sue carte e i suoi oggetti. Soprattutto: sarà Spampinato, in diverse inchieste, a spiegare come il commercio d’arte e di arredi sacri, così come il crescente contrabbando di sigarette, serve a finanziare l’eversione nera in combutta con quella greca. E Tumino, come Campria, era legato al mercato antiquario e ai circoli neofascisti della città. Altri si indirizzano verso piste meno inquietanti: amorazzi, una cosa tra uomini, questione di femmine. In fondo Tumino era uno che non si tirava mai indietro.

La sera di Sanremo

Nel frattempo il Campria viene chiamato a deporre come testimone accumulando ambiguità, contraddizioni e alibi discutibili (tra le altre cose dice di aver passato la serata a casa dei suoceri a guardare il Festival di Sanremo, ma le conferme non arrivano) su cui nessuno si dà la pena di indagare, probabilmente per riguardo al padre. Si verrà a sapere che la mattina prima del delitto, Tumino è stato visto in macchina con il presidente del Tribunale e sua moglie; si saprà che sei giorni prima di uccidere Giovanni, Roberto Campria è andato dal procuratore Agostino Fera per informarlo di essere stato avvicinato da «persone sconosciute» che gli chiedevano aiuto in relazione a una faccenda di contrabbando di sigarette (e Fera non avrebbe neanche segnalato l’incontro a chi di dovere). Tante altre zone della personalità del sospettato rimangono oscure e nessuno si adopera per vederci chiaro. Il 2 agosto Campria arriva a convocare una conferenza stampa in casa sua per chiarire, non richiesto, alcuni punti della questione. I giornalisti che lo ascoltano sono tre e fra loro c’è anche Giovanni («Ho pagato un prezzo troppo alto per una colpa che non ho», dice Roberto). Tra le conseguenze di quelle accuse c’è la fine del fidanzamento con Emilia Cavalieri, che durava da tre anni. Ascoltandolo, Giovanni cambia idea (almeno così sembra) e lo scrive il giorno dopo, nell’ultimo articolo sul caso Tumino: con ogni probabilità non ha nulla a che vedere con il delitto. Si frequentano, qualcuno potrebbe pensare che sia nata un’amicizia. Ma è Campria a insistere perché Giovanni lo incontri e Giovanni spera di strappargli qualche confidenza utile. Intanto il giornalista da oltre un anno non si stanca di raccontare ai suoi lettori che latitanti dell’eversione nera circolano liberamente nella Sicilia Sud Orientale. Mercoledì 6marzo, una settimana dopo il delitto Tumino, lo scoop: Stefano Delle Chiaie (ricercato come uno dei possibili autori della strage di Piazza Fontana) è stato avvistato qualche mese prima all’Hotel Mediterraneo di Ragusa, dove ha tranquillamente soggiornato con altri neofascisti, come un certo Vittorio Quintavalle, ex Decima Mas, fedelissimo del golpista Borghese. Il quale Quintavalle, dopo essere stato interrogato sull’omicidio Tumino (adducendo alibi poi smentiti da testimoni), lascia precipitosamente la città.

Una prova di fedeltà

Più si avvicina a intravedere una sua verità sul caso Tumino (e lo confida a qualche amico), più Spampinato sente la terra bruciargli sotto i piedi. Scopre che il suo telefono è controllato, individua degli infiltrati fascisti nei gruppi della sinistra, capisce che ci sono oscuri personaggi che indagano sul suo conto, ha paura ma non molla, Campria lo marca stretto perché forse teme che le nuove piste portino sempre a lui: vuole essere informato passo dopo passo sullo sviluppo delle ricerche. A posteriori, Giovanni sarà fatto passare per un esaltato, per un provocatore. E’ l’opinione del magistrato Fera. Nell’udienza di secondo grado del processo, il pm Auletta dirà: «Campria aveva paura non per quello che Spampinato aveva scritto, ma per quanto non aveva ancora scritto sulle trame dei fascisti e sui pericolosi traffici nei quali erano coinvolti sia Tumino che Campria. Il delitto è stato una prova di fedeltà a quel mondo». Prova richiesta da chi? E perché? Si ritorna a Voltaire: alle cause ignote di un effetto purtroppo noto.

Paolo di Stefano

Corriere della Sera – 1 giugno 2008

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