Intercettazione mon amour

Il problema principale delle intercettazioni telefoniche, per quanto riguarda l’Italia, è che se ne fanno troppe


di Piercamillo Davigo (da Il Barbiere della Sera)

Il problema principale delle intercettazioni telefoniche, per quanto riguarda l’Italia, è che se ne fanno troppe (anche se il concetto di “troppe” è un concetto ovviamente indeterminato: bisognerebbe sapere infatti quale sarebbe la misura “necessaria”, anche in considerazione del fatto che l’Italia conosce forme di criminalità organizzata ignote in altri Paesi europei).

Comunque, con riferimento a quanto avviene negli altri paesi, in Italia se ne fanno un numero decisamente superiore. La ragione non è da ricercarsi nella normativa specifica: quella italiana, infatti, è sostanzialmente simile a quella, per esempio, degli Stati Uniti.

Il problema è che nel nostro ordinamento, così come in altri ordinamenti, le intercettazioni telefoniche sono un mezzo di prova residuale, nel senso che possono essere disposte se non è possibile acquisire altrimenti la prova del reato.

In altri paesi c’è un ricorso molto più ampio alle operazioni sotto copertura di quanto non si faccia in Italia.

Per esempio, negli Stati Uniti non si fanno indagini sulla corruzione: si manda un agente federale a dare denaro a un pubblico funzionario e se questo lo prende, viene arrestato.

In Italia una cosa di questo genere non si può fare e probabilmente, se anche si potesse fare, non integrerebbe reato secondo il nostro codice penale, perché chi offre il denaro non è in realtà un corruttore, ma è un agente di polizia che persegue finalità diverse da quelle di corrompere.

E quindi è ovvio che, essendoci nel nostro Paese minori strumenti di indagine di altro tipo, si finisce per fare un uso massiccio delle intercettazioni telefoniche.

La cosa curiosa è che le polemiche sull’eccesso di intercettazioni provengano da ambienti governativi.

Le intercettazioni, salvo i casi di urgenza in cui sono disposte dal pubblico ministero, devono essere autorizzate dal giudice su richiesta del pubblico ministero, il quale svolge dunque la funzione di organo di filtro delle richieste di intercettazione che pervengono: anche io ho passato la mia vita come pubblico ministero a cercare di contenere le innumerevoli richieste di intercettazioni che arrivavano dalle forze di polizia.

Ora, le forze di polizia hanno tre dipendenze: una gerarchica, dall’amministrazione di cui fanno parte; una funzionale, in quanto organo di pubblica sicurezza, dal ministro dell’Interno; e una funzionale, in quanto polizia giudiziaria, dall’autorità giudiziaria.

Se il governo ritenesse che il numero delle intercettazioni fosse eccessivo, basterebbe che desse ordine alle forze di polizia di fare meno richieste, e crollerebbe in questo modo il numero di intercettazioni.

Ma evidentemente non sono queste le intercettazioni che preoccupano il governo: non sono le innumerevoli richieste di intercettazioni che le forze di polizia rivolgono all’autorità giudiziaria (e che gonfiano le statistiche) il vero problema.

Quelle che creano preoccupazioni sono quelle che talvolta non promanano da richieste della polizia giudiziaria, ma sono di iniziativa dell’autorità giudiziaria, o sono richieste dalla polizia giudiziaria già impegnata in indagini su certi tipi di criminalità – per intenderci: la criminalità dei cosiddetti colletti bianchi.

Quindi il problema frequentemente lamentato del costo, anche eccessivo, delle intercettazioni telefoniche potrebbe essere risolto pretendendo (legittimamente, del resto, dal punto di vita organizzativo e di raccordo con l’attività di pubblica sicurezza, da parte dell’esecutivo) che le forze di polizia attivino, prima di fare le richieste di intercettazioni, altre forme di indagini.

Bisogna, fra l’altro, considerare che molte intercettazioni, se non vengono integrate da servizi di osservazione, controllo e pedinamento finiscono per essere inutili: una conversazione telefonica registrata in cui due dicono “ci vediamo là con l’amico”, serve a poco se non si vede dov’è “là” e chi è “l’amico”.

Si capisce dunque l’importanza di integrare le intercettazioni con un’attività di osservazione controllo e pedinamento, mentre sovente queste attività non accompagnano le intercettazioni.

Per questo la mia sensazione è che, a volte, aumenta il numero di intercettazioni perché, in questo modo, si risparmiano uomini: si mette un uomo solo con diverse centraline di ascolto, anziché impiegarne dieci o dodici per un servizio di osservazione e controllo.

Ci sono due aspetti rilevanti connessi alle intercettazioni: la violazione della riservatezza, frequentissima, e il problema delle intercettazioni di conversazioni riguardanti i parlamentari.

Per quanto riguarda la tutela della riservatezza, con l’attuale normativa è pressoché impossibile assicurarne il rispetto.

Apriamo una parentesi generale, perché la questione non riguarda solo le intercettazioni, anche se nelle intercettazioni raggiunge il suo culmine.

Il processo penale è caratterizzato da atti che non sempre sono segreti – anzi non lo sono quasi mai, contrariamente a quel che si pensa, vista la frequenza con cui si parla di “segreto istruttorio”.

Gli atti processuali non sono segreti quando l’atto è conosciuto, o conoscibile, dalla persona sottoposta all’indagine, salvo provvedimento di segretazione.

In Italia è sempre mancata una scelta chiara sulla tutela del segreto: frequentemente, atti segreti sono conosciuti anche da soggetti che al segreto non sono tenuti.

Facciamo un esempio: la persona sottoposta a indagini che renda dichiarazioni che attengono alla responsabilità di terzi, è comunque a conoscenza delle dichiarazioni che ha reso, senza essere tenuto al segreto.

Il suo difensore è tenuto solo al segreto professionale, e solamente fino a che non riceve il consenso del suo cliente, dopodiché questo cade.

Sono quindi tenuti al segreto: i magistrati, gli ausiliari, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, mentre non lo sono tutti gli altri soggetti coinvolti.

Dunque, in primo luogo, non ha alcun senso impedire a qualcuno di rivelare un segreto, se altri lo possono rivelare: non esiste un segreto che sia tale solo per qualcuno e non per qualcun altro.

In secondo luogo, se si vuole assicurare, in qualche modo, la possibilità concreta che il segreto sia mantenuto anche da parte dei soggetti che non sono portatori del dovere di segreto, dovrebbero essere applicabili le norme su materiale “classificato”, come avviene in materia di segreto militare o segreto di Stato, dove gli atti sono “classificati” e hanno quindi delle procedure particolari per essere consultati, custoditi, conservati, copiati e così via.

Mentre, nell’ambito giudiziario, accade che un numero comunque rilevante e non identificabile a priori di soggetti accede ad atti anche segreti per necessità di copie, per necessità di averne cognizione per indagini eccetera.

E quindi le possibilità di uscita sono numerosissime, senza nessuna possibilità, per il titolare dell’indagine, non dico di impedirlo, ma neanche di controllare efficacemente, allo stato attuale della normativa, chi viene a conoscenza di quegl’atti.

Comunque il materiale usato dall’autorità giudiziaria non è mai materiale classificato, anche quando è coperto da segreto.

Addirittura è vietato alle forze di polizia di usare la classificazione nel corrispondere con l’autorità giudiziaria, perché inevitabilmente gli atti destinati all’autorità giudiziaria prima o poi vedono cadere il segreto.

Quindi, se il sistema dovesse essere riformato, la riforma non potrebbe che consistere nel ridurre l’area del segreto, mantenendo ferreamente il segreto solo su ciò che si ritiene debba rimanere tale.

Al contrario, invece, allo stato attuale c’è un’area piuttosto ampia – è stata ridotta rispetto al precedente segreto istruttorio, ma comunque è molto ampia – e gli strumenti di tutela sono risibili: non gli strumenti penali di tutela, ma gli strumenti concreti di prassi e di amministrazione che non lo consentono.

C’è poi la irrisolta questione del rapporto tra gli atti processuali e il diritto di informazione.

Anche se non sono segreti, degli atti processuali è talora vietata la pubblicazione. Nel caso in cui vi sia il divieto di pubblicazione, non esiste un obbligo neanche disciplinare, per soggetti diversi dai funzionari pubblici (intendo dire magistrati appartenenti alla polizia giudiziaria, personale dell’amministrazione), di mantenere la riservatezza su queste intercettazioni.

Tale obbligo non ce l’hanno gli avvocati, per esempio: è da escludere in modo assoluto che possa costituire illecito disciplinare il fatto dell’avvocato che informi del contenuto di atti processuali il suo cliente.

Anzi, è probabilmente un suo dovere deontologico informarlo, quindi non solo non è illecito, ma è doveroso informarlo: sarebbe illecito non farlo, dal punto di vista disciplinare.

L’avvocato che informi invece un giornalista, si comporta in modo corretto solo nel caso in cui lo faccia nell’interesse del suo cliente: se ha avuto questo incarico da chi rappresenta, probabilmente rientra nel suo mandato professionale.

Rimane il fatto, comunque, che il cliente è assolutamente libero di dire ciò che sa a chi gli pare: non è un soggetto tenuto a riservatezza nei confronti di chicchessia (nei limiti ovviamente in cui il suo comportamento non integri diffamazione o altri reati).

L’attuale norma è assai singolare: vieta la pubblicazione, ma la punisce con una sanzione oblazionabile (articolo 684 del codice penale).

Questo significa che per un qualunque periodico è del tutto irrilevante pagare quella oblazione dal punto di vista economico (è l’equivalente delle vecchie 250 mila lire).

Si potrebbe decidere di abolire il divieto di pubblicazione, affidando la tutela ad altre norme, per esempio alle norme sulla diffamazione; se quella vicenda non è rilevante processualmente, cade una delle ragioni che giustificano la pubblicazione di notizie.

L’interesse pubblico giustifica la pubblicazione in determinati casi, ma non sempre: se la notizia riguarda esclusivamente la vita privata e non ha rilevanza penale, non è pubblicabile, e quindi per casi di questo genere si può decidere di affidare la tutela solo a quel tipo di norme, semmai prevedendo adeguati inasprimenti, soprattutto dal punto di vista del risarcimento dei danni.

L’alternativa è abolire il reato di cui all’articolo 684 del codice penale, con il risultato di trasformare il giornalista in testimone.

Il giornalista, infatti, essendo attualmente persona sottoposta a indagini, ha la facoltà di non rispondere e non può essere obbligato a testimoniare se non ha mai ammesso la sua responsabilità su quei fatti – e di solito non l’ammette: si limita a non rispondere.

Anche in questo caso non bisogna farsi soverchie illusioni: nella mia esperienza, le poche volte in cui ho trattato procedimenti relativi alla pubblicazione arbitraria, in cui il giornalista non ha scelto la strada del non rispondere, mi ha detto di aver ricevuto l’informazione per piego anonimo, ed è in tali casi solo teorica la possibilità, per il pubblico ministero, di procedere per false informazioni o per falsa testimonianza.

L’alternativa ulteriore, sempre riducendo l’area del segreto, è di punirne severamente la violazione: a nessun giornalista viene in mente di pubblicare i codici di lancio delle testate nucleari, perché sa che le sanzioni sarebbero gravissime, dato che poi qualunque pazzo potrebbe lanciare i missili nucleari, magari inserendosi come i ragazzi di War Game in un computer della difesa.

Se un segreto lo si vuole tutelare, dunque, ci sono gli strumenti per tutelarlo.

Così facendo, però, ci scontriamo con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha affermato principi che sono tra loro collidenti: da un lato ha affermato il diritto degli imputati alla riservatezza (e ha condannato l’Italia perché non garantisce questo diritto, avendo consentito alla pubblicazione di intercettazioni e di altri atti);

dall’altro però afferma il diritto-dovere dei giornalisti sia di pubblicare notizie di cui vengano a conoscenza, sia di mantenere la riservatezza sulle loro fonti, perché altrimenti non avrebbero le notizie da pubblicare. Ora è evidente che le due questioni non sono facilmente conciliabili e tutto questo crea un problema molto complesso.

Quanto alle intercettazioni, l’attuale disciplina prevede che esse siano conoscibili da numerosi soggetti.

Prevede infatti che quando le intercettazioni vengono effettuate, la polizia giudiziaria rediga dei “brogliacci” in cui sono sintetizzati, e qualche volta trascritti, alcuni passi delle conversazioni.

L’operatore di polizia giudiziaria che ascolta, segnala telefonata per telefonata di che cosa si tratta con un giudizio di sintesi che è : “rilevante” o “irrilevante” (giudizio che, ovviamente, è approssimativo perché una telefonata che può apparire “irrilevante” all’inizio può diventare “rilevante” dopo, o viceversa: per esempio una telefonata che può apparire “rilevante” in un primo momento, quando poi si chiarisce che le “camicie” di cui si parla sono davvero camicie e non una partita di cocaina, può cessare di essere rilevante).

Questo “brogliaccio”, al termine delle operazioni e qualche volta anche durante, se è necessario per proroghe o altri provvedimenti, viene consegnato al pubblico ministero che chiede al giudice per le indagini preliminari la trascrizione nelle forme peritali dei nastri, indicando le telefonate che ritiene rilevanti.

I “brogliacci” devono però essere posti a disposizione delle parti private, che possono indicare quali parti ritengono rilevanti e quindi da far trascrivere.

Supponiamo che il pubblico ministero ritenga che le “camicie” indichino cocaina e chieda di trascrivere tutte le telefonate che contengono la parola “camicie”, tranne una in cui le “camicie” sono davvero camicie, perché la ritiene “non rilevante”.

Il difensore può legittimamente richiedere che venga trascritta anche quest’ultima, dovendo egli dimostrare che le “camicie” sono davvero camicie e non cocaina.

Ovviamente per decidere che cosa è rilevante nelle trascrizioni e che cosa non lo è, le parti devono poterle vedere tutte, e quindi non c’è un filtro preventivo alla consegna alle parti delle intercettazioni.

Per cui tutte queste finiscono per diventare concretamente conoscibili e quindi inevitabilmente divulgabili nel momento in cui, a partire dal “brogliaccio”, si deve decidere che cosa trascrivere e cosa no.

Diventa quindi pressoché impossibile mantenere, non dico segrete, perché segrete non lo sono più, ma almeno riservate, queste intercettazioni, perché vengono a conoscenza di un numero rilevantissimo di soggetti: in un processo in cui ci siano cento imputati con due difensori a testa, duecento avvocati vengono a conoscenza di queste intercettazioni (il che di per sé assicura l’impunità quand’anche fosse illecito divulgarle – e frequentemente non lo è affatto).

È quindi ovvia la necessità di operare una scelta, essendoci elementi tra loro inconciliabili: se si ritiene di garantire il diritto alla riservatezza a persone estranee alla vicenda processuale, bisogna mettere un filtro a monte, ma in questo modo si limitano inevitabilmente i diritti della difesa di interloquire su ciò che è rilevante e ciò che non le è.

La situazione delineata chiarisce che si è in presenza di un problema complesso che certamente non si risolve semplicemente tagliando drasticamente la possibilità di fare intercettazioni.

Bisogna ricordare che le intercettazioni si possono fare, in quanto ci siano gravi indizi della perpetrazione di un reato, e di un reato di particolare gravità (a parte alcuni casi in cui le intercettazioni si possono fare anche per reati lievi che sono quelli di ingiurie, minacce mezzo telefono eccetera, per intuibili ragioni: perché bisogna risalire all’apparecchio chiamante e quindi è necessario comunque un provvedimento dell’autorità giudiziaria).

Dunque le intercettazioni di norma si fanno per reati gravi: sono uno strumento che, per dizione del codice, può essere utilizzato solamente quando altre tecniche di indagine non sono possibili o sono state inutilmente esperite.

Allora: dire che si smette di fare intercettazioni, significa dire che si smette di punire quei reati. Bisogna quindi aver chiaro qual è il costo sull’altro piatto della bilancia.

Ultima questione è quella che riguarda i parlamentari. La disciplina, sia costituzionale sia ordinaria, relativa alle intercettazioni nei confronti di parlamentari è davvero singolare. Cominciamo dalla norma costituzionale:

i parlamentari non possono essere sottoposti a intercettazioni, a perquisizioni e ad altri atti (ma quello su cui qui è importante soffermarsi sono l’intercettazione e la perquisizione), senza l’autorizzazione della Camera di cui fanno parte.

Questa norma è singolare perché le perquisizioni e le intercettazioni sono atti a sorpresa. L’intercettazione necessita in particolar modo dell’elemento della sorpresa (la perquisizione un po’ meno
perché può essere al massimo negativa, se uno è preavvisato), perché se l’intercettato è a conoscenza dell’intercettazione può inquinare gravemente le risultanze processuali, dicendo cose che, interpretate come se non fosse a conoscenza dell’intercettazione, cambiano invece radicalmente le risultanze.

Se io sono stato intercettato e so di aver detto certe cose, posso, se sono abbastanza intelligente e bravo, dal momento un cui so di essere intercettato, cambiare il significato delle cose che ho detto prima (per tornare all’esempio delle camicie e della cocaina: posso cominciare davvero a commerciare in camicie, dando poi così una serie di elementi che potrò nel processo utilizzare per dire : “Vedete che anche allora, quando parlavo di camicie erano in realtà davvero camicie, e non cocaina?”).

Ma se l’autorizzazione deve essere data dalla Camera di cui il parlamentare fa parte, il parlamentare stesso, che fa parte della Camera, può venirne così a conoscenza.

Sarebbe stato meglio stabilire che i parlamentari non possono essere intercettati.

Oppure, se si voleva subordinare l’intercettazione a un’autorizzazione, si poteva prevedere, per esempio, l’autorizzazione di un organo come il presidente della Camera di cui fa parte quel parlamentare, o della Corte costituzionale; insomma: trovare una soluzione diversa da quella di chiedere l’autorizzazione di intercettare un parlamentare alla Camera di cui fa parte.

L’unica ipotesi di richiesta di autorizzazione all’intercettazione nei confronti di un parlamentare che riesco a immaginare come praticabile è quella in cui sia il parlamentare stesso a chiedere le intercettazioni, per esempio per il caso di molestie, minacce o ingiurie a mezzo del telefono: questo è uno dei casi in cui l’intercettazione può essere nota all’intercettato, perché è un atto a sorpresa nei confronti dell’altro interlocutore, non nei confronti dell’intercettato.

Tutto questo riguarda le intercettazioni disposte nei confronti dei parlamentari. Può accadere invece – e la legge disciplina questo caso – che intercettazioni disposte nei confronti di un non parlamentare, incappino in un parlamentare che parla al telefono.

Per esempio viene sottoposto a intercettazione il mio telefono. Un parlamentare mi telefona e quel che mi dice viene inevitabilmente registrato, perché non si può sapere a priori chi sta parlando (bisogna identificare il numero chiamante o chiamato, bisogna sapere chi è l’interlocutore eccetera.

Quando un parlamentare viene intercettato quale terzo rispetto all’intercettazione disposta, la registrazione viene fatta comunque: primo perché avviene in automatico, secondo perché non c’è modo di sapere, in quel momento, che quello che parla è un parlamentare.

Una volta che si è capito che una delle voci appartiene a un parlamentare, l’autorità giudiziaria deve decidere se i contenuti della telefonata sono “rilevanti” o “non rilevanti”: se li ritiene rilevanti, deve chiedere alla Camera di appartenenza l’autorizzazione a utilizzarle, entro un termine molto breve (dieci giorni).

Se l’autorizzazione viene data, queste intercettazioni vengono trascritte, se viene negata, le intercettazioni devono essere distrutte.

Come è stabilito dall’articolo 6 della legge 20 giugno 2003, numero 140: “Fuori dalle ipotesi previste dall’articolo 4, il giudice per le indagini preliminari anche su istanza delle parti, ovvero del parlamentare interessato, qualora ritenga irrilevante in tutto o in parte ai fini del procedimento i verbali e le registrazioni delle conversazioni o comunicazioni intercettati in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi , alle quali hanno preso parte membri del Parlamento, ovvero i tabulati di comunicazione acquisiti nel corso dei medesimi procedimenti, sentite le parti, a tutela della riservatezza, ne decide in Camera di consiglio la distruzione integrale ovvero delle parti ritenute irrilevanti , a noma dell’articolo 269, comma 23 del codice di procedura penale”.

Faccio una prima notazione: il fatto che si dica “sentite le parti”, implica comunque che le parti vengano a conoscenza, in ogni caso, prima della trascrizione, dei contenuti dell’intercettazione (del “brogliaccio”).

Ancora: “Qualora su istanza di una delle parti processuali, sentite le altre parti nei termini e nei modi di cui l’articolo 268 comma 6 del codice di procedura penale, ritenga necessario utilizzare le intercettazioni dei tabulati di cui al comma 1, il giudice per le indagini preliminari decide con ordinanza e richiede entro dieci giorni l’autorizzazione alla Camera alla quale il membro del parlamento appartiene o apparteneva nel momento in cui le conversazioni o le comunicazioni sono state intercettate.

La richieste di autorizzazione è trasmessa direttamente alla Camera competente ed è poi trasmessa al giudice per le indagini preliminari denuncia il fatto per il quale è in corso il procedimento e indica le norme di legge che si assumono violate e gli elementi sui quali la richiesta si fonda, allegando altresì copia integrale dei verbali delle registrazioni e dei tabulati di comunicazioni.

In caso di scioglimento della camera al quale il parlamentare appartiene la richiesta perde efficacia a decorrere dall’inizio della successiva legislatura e può essere rinnovata presentata alla Camera competente all’inizio della legislatura stessa. Se l’autorizzazione viene negata, la documentazione dell’intercettazione deve essere distrutta immediatamente, comunque non oltre i dieci giorni dalla comunicazione del diniego.

Tutti i verbali delle registrazioni e dei tabulati di comunicazioni acquisite in violazione del disposto e presente articolo devono essere dichiarati inutilizzabili dal giudice in ogni stato e grado del procedimento”.

La vicenda che in questi giorni ha riempito i giornali (e cioè le intercettazioni che riguardavano il segretario di un partito), presenta alcune peculiarità che la diversificano anche da questo quadro generale che abbiamo visto.

Le peculiarità sono date dal fatto che – ovviamente io non ne so nulla direttamente, mi riferisco a quel che ho letto sui giornali – la copia delle registrazioni in possesso della Procura della Repubblica sia ancora sigillata.

Questo implica che ci siano delle copie in più – o per lo meno una copia in più – rispetto a quella consegnata alla Procura della Repubblica, a meno di non ritenere che qualcuno abbia una tale memoria di averle solo sentite e ripetute con precisione, dato che – sembra di capire – corrispondono nel contenuto a quanto l’interlocutore ricordava di avere detto (nessuno infatti ha protestato negando di aver mai detto quello che era riferito).

Qui la questione diventa complicata e investe un ulteriore problema, ed è quello di cui abbiamo fatto cenno prima: la triplice dipendenza degli organi di polizia.

Funzionale come polizia giudiziaria dipendente dall’autorità giudiziaria, funzionale come organo di pubblica sicurezza dipendente dal ministero dell’interno, gerarchica, dai loro superiori e quindi in un ultima analisi dipendenti dal ministro nel cui dicastero è incardinato il corpo della polizia (cioè Interno, Difesa, Economia…).

E qui nasce un’altro problema, e cioè se l’ufficiale di polizia giudiziaria perda, nell’ambito delle relative funzioni, la dipendenza gerarchica e se possa o meno opporre il segreto ai suoi superiori.

La questione è controversa. Io ritengo che la risposta sia no.

È necessaria una premessa: gli appartenenti ai corpi di polizia sono ufficiali di polizia giudiziaria solo fino al grado di colonnello o di primo dirigente (per i corpi civili); i gradi superiori – quindi i generali e i questori – non sono ufficiali di polizia giudiziaria.

La legge stabilisce questo, non perché le funzioni di polizia giudiziaria siano così delicate da non poterle affidare ai generali e ai questori, ma per sottrarre costoro alla dipendenza funzionale e al controllo dell’autorità giudiziaria.

Quindi: i vertici delle amministrazioni non sono sottoposti a un controllo che l’attività giudiziaria esercita (in maniera abbastanza flebile, ma che comunque potrebbe essere impiegato energicamente, perché la magistratura interloquisce nei trasferimenti, nelle promozioni…).

Supponiamo che un colonnello dei carabinieri, come ufficiale di polizia giudiziaria, incaricato d’indagini e dell’esecuzione di un rilevante numero di decreti di perquisizione e di ordinanza di custodia cautelare, abbia necessità di disporre di quattro o cinquemila uomini.

Non li ha alle sue dirette dipendenze e deve chiederli al generale, il quale ovviamente gli chiederà per che cosa gli servono.

E come potrebbe non spiegarglielo? Non può certo dirgli “è un segreto”. D’altro canto, se si ritiene, come sostengono alcuni, che gli ufficiali di polizia giudiziaria abbiano il dovere del segreto verso i loro superiori che non hanno tale qualità, ne deriverebbe una conseguenza perniciosa e cioè che questi ulteriori superiori non sono tenuti al segreto, perché dal momento in cui vengono a conoscenza del segreto sono liberi di divulgarlo.

Allora è più serio ritenere che il colonnello in questione possa informare i suoi superiori, ma che questi a loro volta siano tenuti al segreto d’ufficio (dato che non sono venuti in possesso di queste notizie chiacchierando con amici al bar, ma per l’esercizio delle loro funzioni).

Un altro esempio che si può fare è quello dell’ufficiale di polizia giudiziaria che deve progredire in carriera: è necessario che i suoi superiori redigano le note caratteristiche alla fine dell’anno.

Ovviamente in queste note caratteristiche il suo superiore lo valuta anche per la sua attività di ufficiale di polizia giudiziaria (e come potrebbe prescinderne?) e per farlo deve esserne per forza informato.

Rimane il fatto che, in questo modo, diventano di difficile spiegazione alcune norme come quelle che consentono al ministro dell’Interno di attingere a notizie dalle autorità giudiziaria con richiesta che in taluni casi l’autorità giudiziaria può respingere.

Se è vero, infatti, che c’è questa struttura piramidale, le notizie probabilmente gli arrivano comunque. E, del resto, noto che al di là delle formali richieste, frequentemente i vertici dei corpi di polizia, quando fanno le varie conferenze stampa, presentano anche i risultati dell’attività di polizia giudiziaria; così come il ministro dell’Interno, nella sua qualità di autorità nazionale di pubblica sicurezza, frequentemente parla di attività che non sono di pubblica sicurezza, ma di polizia giudiziaria, mostrando in modo tale da esserne perfettamente informato, seppur come dato aggregato e non per casi singoli.

Questa questione è come quella della conciliazione della tutela della riservatezza con la tutela della libertà d’informazione: è difficilmente risolvibile.

Perché delle due l’una: o si crea un corpo di polizia giudiziaria che non abbia la qualità di organo di pubblica sicurezza e sia alle dipendenze – esclusive – dell’autorità giudiziaria (e io credo che questo non verrebbe accettato mai), oppure si sottopone il pubblico ministero all’esecutivo, perché i sistemi sono sempre due di coordinamento perfetto tra l’attività di sicurezza pubblica, tipica dell’esecutivo del governo, e l’attività di repressione dei reati che invece è tipica del giudiziario.

Noi abbiamo una forma ibrida che crea notevoli problemi.

Tutto questo per dire come il problema sia, per un verso, molto complesso e per altro verso in termini del tutto diversi da quelli in cui è stato dibattuto in sede politica in questi mesi.

A me sembra che si parli d’altro, rispetto alle tematiche concrete che andavano esaminate. Anche se certamente ci sono problemi reali quale il diritto di non vedersi messo in piazza se non si hanno commessi reati e se non si ha fatto nulla che sia riprovevole e degno di essere conosciuto in ragione all’espletamento di pubbliche funzioni.

Tutelare però questo sacrosanto diritto alla riservatezza, in questo contesto, è cosa estremamente complicata.

Certamente la cosa più irragionevole sarebbe quella di abolire le intercettazioni per evitare rischi di divulgazione.

Ma su questa strada potremmo abolire i processi penali: rinunciare a punire i reati. Dopodiché, però, avremmo la legge della giungla.

Piercamillo Davigo

(Ha collaborato Giovanna Abrami)

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