Internet, legge sulla stampa, editoria, blog, diffamazione. Parola di Cassazione penale

La Suprema Corte censura l’infecondo tentativo di estendere, in campo penale, alle comunicazioni telematiche la normativa sulla stampa, specie in un caso non risulti neppure soggetto a registrazione


Franco Abruzzo.it

La Suprema Corte censura l’infecondo tentativo (operato dalla Corte di Appello di Roma, ndr) di estendere, in campo penale, alle comunicazioni telematiche la normativa sulla stampa, specie in un caso, come quello di specie, in cui il sito internet (“il barbiere della sera”, ndr) non risulti neppure soggetto a registrazione”. (Sentenza 15 maggio – 12 giugno 2008, n. 24018, della V sezione penale della Cassazione in www.ricercagiuridica.com:80/sentenze/index.php?num=2772&search= ).

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

Sentenza 15 maggio – 12 giugno 2008, n. 24018

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

OSSERVA

Con sentenza del 30 gennaio 2007 la Corte di appello di Roma, in riforma della pronuncia di condanna di primo grado, ha assolto – per non aver commesso il fatto – L.F. dal reato di cui all’art. 595 c.p., comma 1 e 3, contestatole “per avere offeso la reputazione di O.A. (all’epoca capo della redazione del settimanale ****), con attribuzione di fatto determinato, mediante pubblicazione su un sito internet (…”) di un articolo dal titolo “no e poi no. Col … non parlerò”, firmato con lo pseudonimo “la ragazza del bar”, nel quale affermava contrariamente al vero che un magistrato milanese aveva ottenuto un risarcimento di L. 15.000.000 da Panorama a causa di un articolo dell’ O. su tale periodico, a contenuto diffamatorio”.

La decisione adottata dalla corte romana si affida alle seguenti considerazioni:

– lo scritto incriminato, stilato dalla L., non in dica in alcun modo l’ O. come autore del pezzo diffamatorio apparso su …, redatto invece da altro giornalista ( M.A.), nè quale “direttore responsabile di questo settimanale, dunque in qualche modo responsabile della pubblicazione per la quale il giornale aveva riportato condanna”;

– sono invece il titolo e la presentazione del pezzo sul “blog” che esplicitamente attribuiscono l’articolo all’ O., sicchè non è possibile superare l’argomento portato a difesa dell’imputata, secondo cui essi erano stati redatti da altre persone – e segnatamente dai responsabili, o titolari o beneficiari o proprietari del “blog” medesimo – così come avviene del resto con riferimento agli articoli pubblicati su giornali e periodici, dove l’impaginazione, il titolo, i sottotitoli, le fotografie e simili sono decisi dalla redazione e non dall’articolista;

– e non pare riuscito il tentativo dell’accusa di dimostrare che il “blog” altro non sia che una emanazione della stessa L., a cui qualche tempo dopo i fatti esso risultò, intestato, essendo comparse in causa altre persone (teste I.L.) a cui probabilmente faceva capo, almeno all’epoca del fatto.

Propone ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 576 c.p.p., il difensore della parte civile, lamentando violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) e b), sotto vari profili, in relazione all’art. 192 c.p.p., comma 1 e art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e).

Rileva preliminarmente il Collegio che non vi e spazio per la tesi in rito esposta dal difensore dell’imputata all’odierna udienza a supporto della eccepita inammissibilità del ricorso proposto dalla parte civile.

Occorre ricordare infatti che la parte civile è legittimata a proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento o di assoluzione ed a chiedere la condanna dell’imputato alle restituzioni ed al risarcimento del danno, senza che possa essere di ostacolo l’inammissibilità o la mancanza dell’impugnazione del pubblico ministero, posto che l’art. 576 c.p.p., prevede una deroga rispetto a quanto stabilito dall’art. 538 c.p.p., e in tal modo legittima la parte civile non solo a proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento o di assoluzione, ma anche a chiedere l’affermazione di responsabilità penale dell’imputato ai soli fini dell’accoglimento della domanda di restituzione o di risarcimento del danno (v. Sfass. Sez. 1^, 12 marzo 2004, Maggio ed altri, rv. 227971; Cass. 3 sez. 5^, 6 febbraio 2001, Maggio, rv 218905).

Ciò premesso, devono ritenersi fondate – per contro – le censure che il ricorrente appunta sulla motivazione delle, sentenza, di appello.

Può richiamarsi, al riguardo, la pacifica statuizione giurisprudenziale secondo la quale il ribaltamento in appello di una decisione di condanna postula la specifica puntuale spiegazione dei passaggi argomentativi attraverso i quali il giudice del gravame reputa superabile l’opposta motivazione di prima istanza.

L’esame delle due pronunce intervenute in sede di me rito induce a concludere che il predetto principio non sia stato in concreto rispettato, non avendo il giudice d’appello assolto all’onere di compiuta argomentazione delle sue decisioni.

In particolare – e a parte l’infecondo tentativo di estendere, in campo penale, alle comunicazioni telematiche la normativa sulla stampa, specie in un caso, come quello di specie, in cui il sito internet non risulti neppure soggetto a registrazione, anch’esso che potesse esserlo, il che imponeva di considerare gravante comunque sulla imputata, indiscussa autrice dello scritto, l’onere di provare con assoluta certezza che altri, e a sua insaputa, avesse introdotto il differente “titolo e sottotitolo” del pezzo – la corte territoriale avrebbe dovuto anzitutto dar conto, in modo effettivamente esauriente, del ragionamento in forza del quale era possibile affermare, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, che “Il barbiere della sera” fosse un “blog”, nel quale occorreva avere una password per accedere al sito, in possesso esclusivo del gestore, proprietario o titolare, cui spettava la confezione del titolo e la presentazione del pezzo inviato.

L’assunto si risolve invece in una pura affermazione, non essendo fondato su alcun dato probatorio: si evoca, in proposito la comparsa in processo di “altre persone(teste I.L.), cui avrebbe fatto capo all’epoca del. fatto il sito”, senza considerare tuttavia che tale I. non è stato escusso come testimone e di lui parla soltanto la teste D.V., le cui indicazioni, peraltro, risultano completamente disattese dal tribunale, per il quale la riconducibilità de “Il barbiere della sera” alla L. è attestata dall’insieme delle risultanze processuali, compresa la copiosa documentazione prodotta dalla parte civile (anch’essa del tutto ignorata dal provvedimento impugnato), inducente a ritenere che l’imputata avesse sempre avuto libero accesso al sito stante la sua continua attività svoltavi.

Ma, a parte questo, il giudice “a quo” avrebbe dovuto anche spiegare le ragioni del suo diverso avviso rispetto all’argomentare del tribunale sul fatto che “il testo” dello scritto fosse “perfettamente” in linea con “il titolo e sottotitolo” del medesimo.

Pure su questo aspetto le censure del ricorrente colgono nel segno.

Invero, la valutatone operata dalla corte territoriale appare a dir poco superficiale. Il giudice d’appello si limita a dire che il testo non riporta l’ O. quale autore dell’articolo apparso su … e lo indica esattamente come “capo della redazione romana” al quale si vorrebbero chiedere, con un’intervista, dei “chiarimenti”, stigmatizzandosi il rifiuto ricevuto attraverso una segretaria senza nemmeno una domanda sul tema, dell’eventuale intervista. Ma si astiene dal commentare gli ulteriori passaggi, che neppure riporta e che, secondo la prospettazione accusatoria, si prestavano ad essere interpretati – anche in forza della mancata indicazione, pure nel testo, dell’effettivo autore dell’articolo pubblicato dal settimanale romano, il menzionate M., e del fatto che “i chiarimenti” fossero stati richiesti proprio all’ O. e non al M. o al direttore responsabile del periodico – come idonei a convincere il lettore che l’ O. potesse essere comunque “coinvolto” nella pubblicazione dell’articolo riguardante il magistrato milanese.

L’impone pertanto l’annullamento della, sentenza impugnata con rinvio, che va disposto, ai sensi dell’art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado di appello.

P.Q.M.

La Corte:

Annulla agli effetti civili la sentenza impugnata e rinvia per il giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Le spese al definitivo.

Così deciso in Roma, il 15 maggio 2008.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2008.

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