Novara: giornalisti indagati per violazione del segreto istruttorio. Per l’Ordine è un atto illegittimo

La notizia circola da una decina di giorni, da quando la Procura della Repubblica di Novara ha disposto ed eseguito la perquisizione di postazioni di lavoro ed abitazioni private – con contestuale sequestro delle memorie dei computer – a carico di alcuni giornalisti.

Gli indagati sono: il caposervizio della redazione provinciale del quotidiano "La Stampa", il direttore della "Tribuna Novarese" e il cronista del bisettimanale della testata (Tribuna Novarese, 23/10/2009, p.19). L’accusa è di violazione del segreto d’ufficio e divulgazione di atti coperti dal segreto istruttorio; difatti, nella ricostruzione degli inquirenti, i tre colleghi avrebbero anticipato a fine settembre alcuni particolari di uno scandalo le cui risultanze giudiziarie sono divenute ostensibili solo lo scorso 22 ottobre a seguito dell’applicazione di cinque misure cautelari ad altrettanti indagati (tutti funzionari della Pubblica Amministrazione e Pubblici Ufficiali).  L’implicazione – sotto diversissimo titolo – dei tre giornalisti piemontesi nella vicenda, ha suscitato le stizzite reazioni dell’intero viale dell’editoria: ordine professionale, associazioni e sindcato dei cronisti hanno fatto quadrato intorno ai colleghi, tanto che, sia il Presidente dei giornalisti del Piemonte Sergio Miravalle, che quello nazionale Lorenzo Del Boca, hanno prontamente stigmatizzato l’iniziativa della Procura novarese appellandosi al principio della libertà di stampa: entrambi, sostengono l’assoluta legittimità del contegno tenuto da giornalisti che, dopo aver intercettato e verificato la fonte, si sono determinati per la pubblicazione. Le perquisizioni dei giorni scorsi ed il sequestro di materiale professionale connotano – si aggiunge – un atteggiamento liberticida a discapito del diritto di cronaca. Dal canto suo, la Procura della Repubblica procedente ritiene di aver agito nelle regole, ponendo in essere niente più di un atto dovuto, addirittura prevedibile da parte dei tre cronisti, in quanto – replica causticamente il Procuratore Capo dott. Francesco Saluzzo -"[…] procurarsi notizie ed informazioni utilizzando canali indebiti o, peggio, illeciti, comporta delle scelte e una conseguente assunzione di responsabilità" (cfr. www.odgpiemonte.it). In realtà, l’argomentazione del magistrato appare, a nostro avviso, tanto decisa quanto temeraria se la si confronta con i principi ispiratori dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali. L’articolo 10 della CEDU, infatti, plasma la libertà di espressione in tutte le sue possibili accezioni e, nella successiva giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la sua superiorità vince su ogni altra normativa nazionale contrastante. La questione, a questo punto, si complica ed appaiono necessarie alcune fugaci glosse in merito alla giurisprudenza dei giudici di Strasburgo. Nel corso della trattazione di vari casi in cui i tribunali nazionali avevano chiamato a rispondere giornalisti di indebite rivelazioni attinenti alle vicissitudini istituzionali (anche giudiziarie) di Paesi contraenti, l’organo sovranazionale ha avuto modo di pronunciarsi emblematicamente in materia di segretezza delle fonti ed illegittimità delle perquisizioni ai danni degli organi di stampa autorizzati. Il rango da attribuire a queste statuizioni è stato definito dalla stessa Corte Costituzionale che, pronunciandosi per ben tre volte (sentt. 348 e 349/2007; 39/2008), ha vincolato la Repubblica Italiana ed i propri magistrati ad uniformarsi alle sentenze della Corte Europea, collocando nel nostro ordinamento giuridico le disposizioni contenute nella CEDU alla stregua di "norme interposte" per effetto dell’art. 117, comma 1, della Costituzione. Controreplicando al Procuratore Saluzzo, allora, occorre considerare quanto emerge dai pronunciamenti del Tribunale sovranazionale che ci aiuta nella composizione della controversia in esame. Le fonti di un giornalista sono l’habitat del proprio diritto di ricercare le notizie, al quale fa da corollario quello relativo alla loro protezione (v. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 27/03/1996, Goodwin c. Regno Unito, in www.francoabruzzo.it, 2/11/2009). Queste, addirittura, vengono definite come "uno dei pilastri della libertà di stampa" – aggiungendo che – "l’assenza di una tale protezione potrebbe dissuadere le fonti giornalistiche dall’aiutare la stampa ad informare il pubblico su questioni di interesse generale". Se, dunque, la tutela dell’origine della notizia è una prerogativa riconosciuta al cronista, fa da pendant il divieto di compiere perquisizioni e sequestri nelle redazioni e nelle abitazioni private dei giornalisti alla ricerca di tracce delle eventuali fonti, anche se supposte "indebite" o "illecite" come afferma la Procura di Novara. Infatti, anche in questo campo, la giurisprudenza della Corte Europea è ben consolidata nell’affermare che "le perquisizioni nell’abitazione e nei locali professionali devono essere analizzate incontestabilmente come un’ingerenza nell’esercizio, da parte dell’interessato, dei diritti derivanti dal par. 1 dell’art. 10. […] La Corte giudica che perquisizioni aventi per oggetto la scoperta delle fonti di un giornalista costituiscono – anche se restano senza risultato – un’azione più grave dell’intimazione a divulgare l’identità della fonte" (v. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 25/02/2003, Roemen c. Belgio, in www.francoabruzzo.it, 2/11/2009). Concludendo, laddove il Procuratore Saluzzo interpreta l’art. 10 CEDU non ritenendo che la scriminante ivi contenuta riguardi le informazioni pubblicate da un giornalista nell’esercizio della professione, limitandola alla sola diffusione delle proprie idee, pare proprio che si sbagli di grosso sottovalutando la chiarezza con cui la Corte di Strasburgo riconosce e delinea il limite dell’azione giudiziaria innanzi al diritto di cronaca e di informazione. Sottoporre ad indagine i giornalisti per contestare loro il reato di divulgazione di atti coperti da segreto ai sensi dell’art. 326 c.p., non appare affatto un atto dovuto, bensì illegittimo per gli orientamenti sopra esposti. Ubi maior minor cessat: i giudici nazionali è bene che inizino ad abituarsi alla sempre più frequente e necessitata ingerenza degli organi giudiziari europei nell’amministrazione della giustizia sul nostro territorio nazionale. (Stefano Cionini per NL)

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