La Cassazione si è espressa in materia con una recente sentenza. Rischia una condanna per ingiuria chi invia mail all’interno dell’azienda sostenendo di non sopportare più le furbizie di un collega nullafacente o di non voler più passare da fesso, se le voci di tali doglianze giungono alle orecchie del soggetto in questione.
E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 16425, del 21 aprile scorso, ha accolto il ricorso di una lavoratrice che era stata additata da un collega come una scansafatiche e accusata di abusare delle giornate di congedo parentale. L’uomo aveva aggiunto, si legge nella sentenza, “non si è più disposti a passare da fessi e la disonestà non può diventare un vanto”. Il Giudice di Pace di Bassano del Grappa, al quale la signora si era rivolta denunciando il collega per diffamazione e ingiuria, lo aveva assolto con formula piena, idem davanti al Tribunale. Contro tale decisione la signora ha deciso di rivolgersi alla Cassazione, vincendo. In realtà la Cassazione ha semplicemente rinviato la questione al Giudice di Pace per un nuovo esame, in quanto “nella sentenza impugnata erroneamente si afferma che, siccome la missiva non era stata inviata direttamente all’offeso, il reato non era configurabile. Trattandosi di ingiurie epistolari, invece, anche se lo scritto è stato materialmente inviato a persone diverse dall’offeso, il delitto si perfeziona alla condizione che l’agente, all’atto dell’invio, abbia avuto indubbia consapevolezza che lo stesso sarebbe stato comunicato all’offeso”. A parere di chi scrive tutto questo potrebbe far molto discutere, vista l’estrema difficoltà di provare le reali intenzioni dell’agente, soggiacenti all’invio di una mail a persona diversa da quella di cui all’oggetto della missiva. Come si può ipotizzare la sussistenza di un delitto sulla base del fatto che, pur avendo inviato la mail ad un soggetto diverso, l’agente confidasse che in ogni caso le voci sarebbero arrivate all’orecchio della dipendente? (M.P. per NL)