Google e governo cinese si combattono all’arma bianca. E alla fine il vincitore è Baidu: + 21% in tre sedute in Borsa

Alla fine la spunta Baidu. La querelle che da giorni vede impegnati la multinazionale informatica americana Google ed il governo dirigista ed autoritario di Pechino, con incursioni del Dipartimento di Stato statunitense e di vari comprimari, primo tra tutti la Microsoft (“noi non ci ritiriamo dal mercato cinese”, ovviamente), alla fine della fiera ha un solo vincitore.

E non si parla di una vittoria morale, parliamo di soldoni: da quando, infatti, Google ha temporaneamente deciso di rimuovere i filtri per fare un dispetto ai cinesi che s’erano infiltrati nelle sue base dati, il corrispettivo nazionale – e nazionalista – del colosso americano, vale a dire Baidu, ha guadagnato qualcosa come il 21% in sole tre sedute di Borsa, ricapitalizzando qualcosa come 2,8 miliardi di dollari in un colpo solo, facendo pensare in tanti al golpe informatico. L’impero celeste, divenuto il centro del mondo in termini di internauti (sorpassando, per la prima volta nella storia, gli Stati Uniti), che s’inimica il gigante straniero e lascia campo aperto a quello nazionale? È roba d’alta finanza ma i dubbi sono più che legittimi.
Ad ogni modo, seppure come abbiamo visto la lite Google-Pechino ha giovato incredibilmente a Baidu, forse non tutti sanno che, a dispetto del dominio mondiale incontrastato della compagnia di Montain View, in Cina – che come ricordato è il mercato numero uno al mondo in fatto d’internauti – Google ha sempre avuto una posizione da comprimario, non riuscendo mai a superare la soglia del 36% del mercato delle ricerche web in cinese mandarino. I 338 milioni di utenti cinesi, di fatto, hanno sempre privilegiato il prodotto fatto in casa Baidu, compagnia fondata nel 2000 da Yi Yanhong. Fatto in casa, poi, è una parola grossa, dal momento che, ironia della sorte, Baidu nasce proprio come costola ell’allora sorella maggiore Google. Yi Yanhong, infatti, sul cui conto si fanno molte illazioni ma che in patria è una sorta di semi-Dio, idolatrato da giovani e giovanissimi e preso ad esempio della perfetta mentalità imprenditoriale promossa dalla nuova ideologia che muove il colosso asiatico (il cosiddetto social-capitalismo, una sorta di mostro politico che, dicono gli esperti di politica, associa il peggio dei sistemi socialista e capitalista): fare tanti soldi e non creare grattacapi al governo centrale. Baidu, si diceva, è nato un po’ come sorella minore di Google. Il suo fondatore, infatti, emigrato nella Silicon Valley, nel 2000 aveva creato, tramite un venture capital con una forte partecipazione di Google, per sfondare le porte dell’impero cinese. Nel 2006, poi, con il tanto vituperato ingresso di Google in Cina (con annesse proteste delle associazioni per la tutela della libertà d’informazione per i filtri applicati, d’accordo con le direttive di Pechino, ai propri sistemi), la compagnia americana si era fatta da parte. Nonostante l’ingresso, però, Baidu continuava a detenere una quota intorno al 58% del mercato, contro il 36% di Google. Il perché, oltre che nell’affezione del popolo cinese, può essere ricercato nel rapporto preferenziale da sempre intrattenuto dalla compagnia di Yi Yanhong con Pechino ed alla sua censura, ritenuta radicale, nei confronti dei siti sgraditi al governo. Inoltre, tra le varie ombre che aleggiano le intorno c’è quella del download illegale, che rappresenterebbe – complice una rete di controlli non proprio severi – il 10% dell’intero fatturato aziendale. Ad oggi, Baidu conta qualcosa come 7000 dipendenti in Cina e 16,2 miliardi di capitalizzazione in Borsa. Dovesse scomparire Google dal mercato cinese, i margini di incremento potrebbero essere potenzialmente enormi. (L.B. per NL)
 

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