Internet. Video choc girato ai danni di un giovane disabile: 4 dirigenti di Google accusati di diffamazione e anche di violazione della privacy

Ma una direttiva comunitaria potrebbe salvare Google


analisi di Franco Abruzzo (www.francoabruzzo.it)

Milano, 25 luglio 2008. La Procura di Milano ha chiuso le indagini nei confronti di quattro dirigenti di Google accusati a vario titolo di concorso in diffamazione e violazione della privacy nei confronti di un ragazzo disabile insultato a scuola, a Torino, e ripreso in un video finito in rete grazie al servizio Google Video. Sotto accusa sono David Carl Drummond, presidente del Cda di Google Italy S.r.l. e successivamente amministratore delegato; George De Los Reyes, membro del Cda di Google Italy e poi Ad; Peter Fleitcher, responsabile delle strategie per la privacy per l’europa di Google Inc.; Arvind Desikan, responsabile del progetto Google Video per l’Europa. Nell’avviso di conclusione delle indagini, già notificato, si legge che “offendevano la reputazione dell’Associazione Vividown” nonché del ragazzo protagonista – e vittima – del video, “consentendo che venisse immesso per la successiva diffusione a mezzo internet, attraverso le pagine di Google Video Italia e senza alcun controllo preventivo sul suo contenuto, un filmato in cui perone minorenni, in concorso tra loro”, pronunciando una frase offensiva verso il ragazzo e “ponendo in essere altri numerosi atti vessatori” nei suoi confronti, “ledevano i diritti e le libertà fondamentali nonché la dignità degli interessati”.

Drummond, De Los Reyes e Fleitcher sono accusati di violazione della privacy in quanto “al fine di trarne profitto per il tramite del servizio Google Video (che è gratuito ma si finanzia attraverso la pubblicità, ndr) procedevano al trattamento dei dati personali” in violazione di alcuni articoli del decreto legislativo 196 del 30 giugno 2003. Risulta poi indagata, per un’accusa diversa, una quinta persona, l’indiano Nikesh Arora, che durante una controversia di Google Italy davanti al Garante della privacy “dichiarava falsamente di essere ‘rappresentante debitamente autorizzato’ e ‘legale rappresentante’ di Google Italy” quando invece non ne aveva titolo. In quel caso, la controversia fu vinta da Google. (ANSA).

Articolo del 26 settembre 2006 su “Il Giorno”

Una direttiva comunitaria potrebbe salvare Google

analisi di Franco Abruzzo

docente universitario a contratto di “Diritto dell’Informazione”

La notizia si può riassumere in poche righe nonostante la sua gravità: la Procura di Milano ha iscritto nel registro degli indagati i due legali rappresentanti di Google Italy Srl nell’ambito dell’inchiesta avviata sul video choc girato ai danni di un giovane disabile. Entrambi gli indagati sono americani. I reati contestati sono quelli di concorso omissivo nel reato di diffamazione a mezzo internet. In pratica è stata estesa a Google la normativa sulla stampa sul presupposto che “la rete Internet, quale sistema internazionale di interrelazione tra piccole e grandi reti telematiche, è equiparabile ad un organo di stampa” e che “il titolare di un nome di dominio Internet ha gli obblighi del proprietario di un organo di comunicazione” (Trib. Napoli, 8 agosto 1997).

La società Google Italia si è difesa affermando che “i filmati pubblicati dagli utenti vanno in linea automaticamente e che non c’è nessun filtro editoriale preventivo da parte nostra. Quello che facciamo è ‘tirare giù’ i contenuti illegali quando ce ne accorgiamo. Il video era evidentemente contrario alle nostre policy, infatti l’abbiamo cancellato immediatamente, appena ci è stato segnalato.Stiamo sperimentando, e continueremo a sperimentare, tecnologie in grado di individuare automaticamente i contenuti illegali. Ma non è un’impresa facile.Per fortuna ci siamo accorti che il filtro più importante è il controllo della comunità. Sono gli stessi utenti di Google, che appena vedono qualcosa di anomalo, provvedono a segnalarcelo”. Secondo il Garante della Privacy, “il caso del video del ragazzo down pestato in classe effettivamente pone il problema del controllo sui siti Internet e sui nuovi media per i quali è più difficile intervenire con provvedimenti interdettivi. Il web è molto ampio e la quantità dei siti si moltiplica quotidianamente. Spesso, perciò, sono difficili il monitoraggio e l’intervento tempestivo”.

Oggi il web permette di inviare non solo messaggi ma anche immagini e filmati all’interno di newsgroups, mailing lists, chat line e di costruire pagine web personali. Tramite internet, quindi, si possono commettere diversi reati: la violazione delle norme sul diritto d’autore, la diffamazione (è il caso di cui ci occupiamo), la violazione delle norme contro lo sfruttamento sessuale dei minori, la violazione delle norme sull’ordine pubblico con la diffusione di materiale di carattere terroristico; la violazione del diritto alla privacy.

Quali sono le norme applicabili? La Procura di Milano sembra orientata ad attribuire una responsabilità a Google (inquadrato come un internet provider) per fatti commessi da terzi in base alle norme sulla responsabilità del direttore di una testata giornalistica ed in particolare all’articolo 57 Cp, equiparando il gestore di un sito internet ad un direttore responsabile e attribuendogli l’obbligo di verificare la liceità del materiale pubblicato sul proprio server, compreso quello inviato da terzi. La legge 223/1990 (“legge Mammì”) ha esteso questa responsabilità ai direttori dei Tg e dei radiogiornali, mentre la legge 62/2001 ha coinvolto direttamente i direttori dei siti web. Una sentenza milanese va in questa direzione: “Alla luce della complessiva normativa in tema di pubblicazioni diffuse sulla rete Internet, risulta ormai acquisito all’ordinamento giuridico il principio della totale assimilazione della pubblicazione cartacea a quella diffusa in via elettronica, secondo quanto stabilito esplicitamente dall’articolo 1 della legge 62/2001” (Tribunale di Milano, II sezione civile, sentenza 10-16 maggio 2002 n. 6127).

L’internet provider sarebbe corresponsabile della condotta illecita del terzo utente sulla base del principio giuridico della culpa in vigilando, che si realizza con il mancato adempimento dell’obbligo di monitoraggio del materiale sistemato nel server, obbligo sancito indirettamente dall’articolo. 57 Cp. Il direttore deve evitare che, con il mezzo della stampa (o di internet), si “commettano delitti”.

Il Pm di Milano, però, dovrà valutare l’incidenza di una direttiva comunitaria, che sembra scagionare Google. L’articolo 31 della legge 39/2002 delega il Governo ad emanare un dlgs per l’attuazione della direttiva 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno. Il dlgs è il n. 70/2003 (Attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico). L’articolo 16 di questo dlgs, paragonabile alla classica ciambella di salvataggio (per Google), specifica che “nella prestazione di un servizio della società dell’informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso”.

Google in questo caso svolge un’attività di semplice “ospitalità” del filmato incriminato. Tale circostanza potrebbe evitare grane alla società americana ove si legga anche l’articolo 17 (Assenza dell’obbligo generale di sorveglianza) del dlgs 70/2003: “Nella prestazione dei servizi…..il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. 2. ….il prestatore è comunque tenuto: a) ad informare senza indugio l’autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza, qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario del servizio della società dell’informazione; b) a fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l’identificazione del destinatario dei suoi servizi con cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire attività illecite. 3. Il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto dall’autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l’accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l’accesso, non ha provveduto ad informarne l’autorità competente”. Se non c’è obbligo di sorveglianza non c’è responsabilità penale. E se c’è correttezza nei comportamento con le autorità di vigilanza non c’è responsabilità civile.

Frattanto un senatore di Forza Italia (Maria Burani Procaccini) ha presentato un disegno di legge per vietare la divulgazione via internet di immagini di episodi di bullismo. L’obiettivo è quello di colmare un ”vuoto legislativo”. Saranno previste pene pesanti per i trasgressori, con l’inasprimento delle pene per i minori e per i genitori correi nonché la chiusura dei siti. Probabilmente questa è la via giusta. Bisogna tener conto che il comma 2 dell’articolo 21 proibisce la censura sulla stampa. Gli internet provider non possono esercitare funzioni vietate espressamente dalla Carta fondamentale della Repubblica. Soltanto il giudice può ordinare che un filmato illecito sia tolto dal web. Altra storia è l’accusa di diffamazione: il Pm dovrà provare che i responsabili di Google abbiano agito con dolo. L’impresa, per le questioni illustrate, è a prima vista alquanto difficile. L’Europa sembra escludere questa accusa.

(da “Il Giorno”/”Il Resto del Carlino”/”La Nazione” del 26 settembre 2006, pagina 6. IL COMMENTO/PENE PESANTI, MA AI VERI COLPEVOLI)

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