Complice qualche recente successo editoriale (“La sindrome Lolita”, di Anna Oliverio Ferraris) si è tornati a parlare del rapporto tra i media e le nuove generazioni. Non sono pochi quelli che accusano tv e spot pubblicitari di traviare i nostri ragazzi, proponendo, senza nessun filtro, modelli di riferimento quanto meno discutibili. Dopo la stagione del bullismo (cosa di cui si discuteva come di un’emergenza nazionale solo fino a qualche mese fa) pare sia venuta quella del voyeurismo e delle bamboline dai costumi facili. Se ci fate caso i giornali danno spesso risalto a storie tipo “tredicenne si fa fotografare nuda” o “undicenne vende le sue immagini su internet per comprare vestiti”. Il fenomeno chiaramente riguarda il mondo dei videofonini e dei siti tipo YouTube. La riflessione da fare è molto più ampia e proprio per questo è difficile credere che l’unico responsabile di questa evoluzione dei comportamenti sia il settore pubblicitario. Certo ogni bambino italiano viene raggiunto in media, secondo l’Osservatorio di Pavia, da 33.000 messaggi pubblicitari all’anno, ma forse è più la mancanza delle figure di riferimento tradizionali a mancare. Dovremmo quindi preoccuparci più di quei genitori a cui sfugge completamente il concetto di autorità e di sanzione che dei genitori i cui figli si “comportano male”. In fondo nuove generazioni e cambiamenti dei costumi sono sempre andati a braccetto, per cui non dovrebbe stupire più di tanto lo scollamento che ciclicamente si crea tra una generazione e l’altra. E invece di accusare il mondo della pubblicità di voler colpire ed impressionare i bambini per convincere i genitori a comprare questo o quel prodotto, forse converrebbe puntare il dito su quegli adulti che senza neanche accorgersene abdicano al loro ruolo educativo e non riescono nemmeno a dire qualche “no”. (Davide Agazzi per NL)