Netiquette e autodisciplina: la proposta di Stefano Rodotà non basta

Anche il coordinatore del comitato sulla governance della rete suggerisce un codice per la regolamentazione dei blog, ma la parola “efficacia” è ancora lontana


Non c’è dubbio sul fatto che i blogger italiani risentano ancora della scossa ricevuta dal ddl di Gentiloni sull’editoria. Benché fosse solo una proposta, fortunatamente eclissatasi in pochissimo tempo dalla relativa diffusione mediatica, sono ancora molti gli internauti convinti che, dietro l’idea del Ministro delle Comunicazioni, si nascondesse qualche reale intenzione coercitiva di regolamentazione del web. Del resto i personaggi scomodi in Italia ci sono sempre stati. Con l’avvento di internet gli stessi sarebbero diventati ancora più fastidiosi, nonostante qualcuno preferirebbe scrivere liberi (e non possiamo che aggiungere, ragionevolmente). Questo è uno dei motivi per cui l’attuale classe politica, dimostratasi più volte inesperta in materia (non si tratta di destra o sinistra, ma, un’altra volta, di anzianità) vorrebbe mutare la natura di quella libertà di cui la rete sembra godere illimitatamente, trasformandola in “vigilata”: internet potrebbe, e di fatto ha dimostrato di potere, auto-disciplinarsi. Il Netiquette per esempio, l’insieme di regole che disciplinano il comportamento di un utente di internet nel rapportarsi agli altri utenti, ne è la prova. Sebbene sia considerato erroneamente un mero decalogo di leggi primitive da molti internauti, i suggerimenti proposti non sono poi così immediati come potrebbe sembrare. I “comandamenti” diffusi attraverso la rete e pubblicati, tra gli altri da Wikipedia, l’enciclopedia libera di internet, sono naturalmente di dominio pubblico e nascono dalla volontà di impartire norme per il comportamento degli utenti in rete. Purtroppo però il Netiquette non sembra bastare e non solo perché sottovalutato da molti, ma anche perché il web necessita ormai di un ordine più attento e preciso. Questo è quanto ci conferma Stefano Rodotà, coordinatore del comitato sulla governance della rete, che, comunque soddisfatto dei diversi tentativi di autoregolamentazione del popolo della rete, fa notare quanto questi stessi sforzi non possano più bastare. La realtà è che viviamo in un’era dove Google dà suggerimenti preziosi ai governi tentando di mescolare tecnologia e politica, dove già lo scorso ottobre il ministro inglese Woodward aveva cercato di accordare l’Unione Europea nel tentativo di concedere completa libertà ai contenuti video amatoriali generati dagli utenti (giusto per evitare drastiche limitazioni), dove Beppe Grillo raccoglie 400 mila adepti con un blog e si accorge di non fare più il comico, bensì il politico, dove dunque varianti e variabili sono così tante da non poter essere coordinate da un codice auto gestito, tanto meno da un eventuale Bill of Rights scritto su misura per il web (del resto l’accezione inglese di Carta dei Diritti spiega come non si crei nulla se non partendo dalla tradizione; ma molti, in internet, faticano a trovare una vera e propria tradizione). Se poi consideriamo anche le questioni giornalistiche in atto tra gli iscritti all’Ordine e i blogger, notiamo come il panorama, quasi sempre occidentale in questo caso, sia ancora più vasto: mentre negli Stati Uniti si propone di estendere il diritto di segretezza sulla fonte anche ai blog, in Europa si combatte perché i quotidiani (nella loro versione online) rimangano le uniche fonti ufficiali di informazione. Tornando in Italia, l’attuale governo, che ha fatto il proverbiale e precipitoso passo indietro, dopo un’uscita degna dei peggiori spettacoli teatrali, non ha ancora trovato una soluzione ragionevole. Il web non va limitato: mantenerlo libero è un nostro diritto, tenerlo “pulito” un nostro dovere. La speranza è che un giorno la disciplina del web non debba ridursi, come è usuale, ad un regolamento al servizio del più forte. Nemmeno le parole del sottosegretario Franco Levi, per quanto piacevoli in apparenza, sembrano essere d’aiuto in una situazione la cui confusione è decisamente una delle peculiarità più vistose: “Ci occupiamo di editoria persuasi che, nel tempo in cui viviamo, un prodotto editoriale si definisca a partire dal suo contenuto (l’informazione), e non più dal mezzo (la carta) attraverso il quale esso viene diffuso”. Cantava Mina con Alberto Lupo: “Parole, parole, parole…”. (Marco Menoncello per NL)

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