Perché quel blogger è stato condannato?

Un blog condannato ai sensi della legge sulla stampa? La sentenza potrebbe rivelarsi meno assurda di quanto si potrebbe pensare. Il fantasma della legge sull’editoria 62/2001 aleggia sulla rete italiana


da Punto Informatico

Roma – La notizia ormai è nota: con una sentenza dei giorni scorsi che, tuttavia, nessuno sembra aver ancora letto, il Tribunale di Modica avrebbe condannato Carlo Ruta – storico e blogger siciliano – per stampa clandestina.

Se la notizia fosse confermata, la decisione affermerebbe un principio importante che va ben al di là della singola vicenda e della pur grave condanna di un blogger: quello secondo cui anche i blog vanno registrati presso il registro della Stampa di cui alla Legge n. 47 del 1948 cui, negli ultimi cinquant’anni, è rimasta affidata la disciplina della materia nonostante gli importanti cambiamenti intervenuti nel mondo dell’informazione e della comunicazione.

L’art. 16 della citata legge, infatti, stabilisce a chiare lettere che “Chiunque intraprenda la pubblicazione di un giornale o altro periodico senza che sia stata eseguita la registrazione prescritta dall’art. 5, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire 500.000”.
L’art. 5 della stessa Legge, a sua volta, prevede che “Nessun giornale o periodico può essere pubblicato se non sia stato registrato presso la cancelleria del tribunale, nella cui circoscrizione la pubblicazione deve effettuarsi.”.

Il blog come un “giornale o periodico” dunque?
La questione è al centro di un dibattito che negli ultimi anni si è riproposto all’attenzione degli addetti ai lavori con periodicità che si potrebbe definire regolare se non si corresse – così facendo – il rischio di vedersi contestare il reato di stampa clandestina.

Andiamo con ordine e cerchiamo di capire perché un’ipotesi quale quella dell’equiparazione di un blog ai giornali e periodici è meno peregrina – norme di legge alla mano – di quanto l’esperienza suggerirebbe a ciascuno di noi.

Il comma 3 dell’art. 1 della bruttissima nuova legge sull’editoria (7 marzo 2001, n. 62) prevede che “Al prodotto editoriale si applicano le disposizioni di cui all’articolo 2 della legge 8 febbraio 1948, n. 47” e che “il prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata, costituente elemento identificativo del prodotto, è sottoposto, altresì, agli obblighi previsti dall’articolo 5 della medesima legge n. 47 del 1948”.

Il primo comma della stessa Legge contiene una definizione di prodotto editoriale omnicomprensiva secondo la quale “per “prodotto editoriale”, ai fini della presente legge, si intende il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei prodotti discografici o cinematografici”.

La nuova legge sull’editoria, dunque, prevede l’applicabilità dell’art. 2 della vecchia legge sulla stampa a tutti i siti internet destinati alla diffusione di informazioni e l’applicabilità altresì dell’art. 5 della stessa legge – quello appunto recante l’obbligo di registrazione presso i tribunali – dei soli siti internet destinati alla diffusione di informazioni contraddistinti da una testata e diffusi al pubblico con periodicità regolare.

Il quadro normativo è completato dalla disposizione contenuta al comma 3 dell’art. 7 del Decreto Legislativo n. 70 del 9 aprile 2003 attraverso il quale è stata data attuazione alla Direttiva sul commercio elettronico.

Secondo tale disposizione “la registrazione della testata editoriale telematica è obbligatoria esclusivamente per le attività per le quali i prestatori del servizio intendano avvalersi delle provvidenze previste dalla legge 7 marzo 2001, n. 62”.

Si tratta di una disposizione scritta in modo ambiguo e poco puntuale perché ha per oggetto un’entità – la “testata telematica” – diversa da quella oggetto della nuova disciplina sull’editoria – il “prodotto editoriale” – e perché fa generico riferimento ad una “registrazione” senza, tuttavia, chiarire se tale registrazione sia quella presso i Tribunali o, piuttosto, quella presso il ROC, Registro Unico degli Operatori della comunicazione.

La differenza non è di poco conto.

Se, infatti, la registrazione di cui all’art. 7 del D.Lgs. 70/2003 è quella prevista all’art. 5 della Legge sulla Stampa, i blogger italiani possono dormire sonni tranquilli e sentirsi liberi – anche laddove aggiornino quotidianamente i propri blog – di decidere se iscrivere o meno il proprio sito presso il registro della Stampa tenuto presso il Tribunale.

Se, invece, il riferimento dovesse intendersi come rivolto al ROC, la questione sarebbe diversa e gli autori di blog a contenuto informativo che postano con “periodicità regolare” si ritroverebbero soggetti all’obbligo di iscrizione di cui alla Legge sulla Stampa e, qualora non vi provvedano, esposti al rischio di sentirsi contestare il reato di stampa clandestina per quanto assurdo ciò possa sembrare.

Dura lex sed lex e, per quanto sia difficile da accettare, l’attuale contesto normativo – caratterizzato da disposizioni ambigue e confuse varate da legislatori che hanno sempre manifestato scarso interesse per le questioni della Rete – legittima la magistratura a pervenire a conclusioni che, inesorabilmente, suonano censorie e contrarie all’esercizio, in Internet, della libertà di manifestazione del pensiero.

Ma c’è di più.

Mentre, infatti, un blogger – stante la possibile equiparazione del suo blog a giornali e periodici – rischia di vedersi contestare il reato di stampa clandestina, esso – come dimostra un altro recente episodio di mala giustizia – non può poi neppure fare affidamento sulle speciali garanzie che nel nostro Paese assistono la stampa: prima tra tutte l’insequestrabilità – se non in casi tassativamente individuati dalla legge – degli stampati.

A ciò si aggiunga che il blogger, qualora attraverso i suoi post diffami qualcuno, corre il rischio di vedersi contestata l’ipotesi aggravata del reato, caratteristica di chi esercita professionalmente l’attività giornalistica.

Troppa confusione e troppe ambiguità: occorrono, con urgenza, leggi nuove che riordinino le previsioni di quelle vecchie (e meno vecchie) alla luce del mutato contesto dell’informazione in Rete senza imbrigliare chi vuol far sentire la sua voce e, ad un tempo, garantendo a tutti la certezza di poter chiedere giustizia nell’ipotesi in cui altri offendano la propria immagine o reputazione.

È un discorso complesso che tocca, tra gli altri, il tema della tradizionale distinzione tra chi fa professionalmente informazione e chi, più o meno assiduamente, utilizza le nuove risorse telematiche per dire la sua.

Entrambe le categorie di soggetti debbono avere eguali responsabilità ed eguali garanzie o, piuttosto, come accade oggi, è giusto continuare a far pesare maggiori responsabilità sui professionisti dell’informazione garantendo, tuttavia, a questi ultimi anche maggiori garanzie?

Guido Scorza
www.guidoscorza.it

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