Cassazione: trasferimento cespiti attivi d’impresa ad altro imprenditore può configurare cessione d’azienda (o di suo ramo) ai fini applicazione imposta registro proporzionale

Lo ha stabilito la V sezione della Corte di Cassazione (sent. n. 9163 del 18/03/2010), alla quale era prevenuto un ricorso promosso dall’Agenzia delle Entrate.

L’agenzia aveva ricorso contro la statuizione della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia. che non aveva riconosciuto, nel trasferimento di proprietà di uno stabilimento balneare per mezzo di due acquisizioni immobiliari, una cessione d’azienda e, dunque, suscettibile di applicazione dell’imposta di registro proporzionale. Nel caso di specie, le parti della compravendita avevano provveduto al pagamento della quota fissa del tributo come delineato nelle tabelle allegate al corpus normativo di riferimento (D.P.R. 131/1986 e s.m.i.), individuando l’oggetto dei negozi giuridici predisposti in termini differenti dalla qualificazione di attività commerciale. A detta dell’erario, però, l’intento elusivo scaturiva dalla semplice sommatoria dei beni immobili di volta in volta trasferiti. Applicare, infatti, il tributo proporzionale in sede di registrazione del contratto risultava sicuramente più gravoso rispetto al pagamento della quota fissa prevista – separatamente – per singole scritture predisposte. Sul pregiudizio alle prerogative impositive dello Stato che l’operazione aveva comportato, si basavano le doglianze dell’ A.d.E. Questa, in sede di accertamento preventivo, riconduceva l’operazione ad una cessione d’azienda pretendendo l’applicazione dell’imposta di registro in termini proporzionali rispetto al valore della compravendita. I primi due gradi di giudizio vedevano soccombenti le prospettazioni fornite dalla P.A ancorandosi le motivazioni di merito sulla definizione contenuta nell’art. 2555 c.c., in base alla quale “L’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”. e deducendo da ciò che “(…) se mancano i fattori della produzione e il collegamento e l’organizzazione degli stessi fatti dall’operatore economico, non vi è né azienda né impresa” (cfr. Cass., V sez. , sent. 9163/2010). La conclusione della C.T.R., invero, non teneva conto della reale suscettibilità dei beni trasferiti all’esercizio dell’impresa, i quali, se considerati uno ad uno, frazionavano cespiti attivi di una stessa impresa per poi conferirli nuovamente – per mezzo dei negozi giuridici posti in essere – nel capitale di altra azienda per il proseguo dell’attività del dante causa. Il Supremo collegio forniva proprio questa lettura dell’intera operazione censurando, altresì, la motivazione della Commissione, la quale aveva radicato il proprio iter logico – argomentativo sulla prosa dell’art 2555 c.c. Sollecitato dall’Avvocatura dello Stato, il collegio di legittimità chiosava sull’operato del giudice speciale criticando l’apodittica replica fornita ai quesiti enunciati dalla ricorrente del giudizio rescissorio. Gli Ermellini, nel prosieguo della sentenza, scioglievano il nodo gordiano della qualificazione contrattuale in favore delle prospettazioni dell’A.d.E, imponendo al giudice del rinvio l’applicazione del principio di diritto elaborato. Segnatamente, in tema di interpretazione degli atti ai fini dell’applicazione dell’imposta i registro, tenendo conto della norma di riferimento contenuta nell’art. 20 D.P.R. 131/1986, “(…) nella qualificazione di un negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale ed alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti; cosicché l’intenzione effettiva dei contraenti di trasferire non un singolo bene o parte di esso, ma l’intera azienda o parte di essa come risultato finale della complessa negoziazione, deve essere accertata dal giudice di merito attraverso l’esame congiunto delle singole pattuizioni (…) a prescindere dalla sussistenza o insussistenza di un intento elusivo” (cfr. Cass., V sez., sent. n. 9163/2010). Tutto ciò considerato, Piazza Cavour si uniformava all’intendimento dell’Agenzia, di fatto imponendo la liquidazione dell’imposta di registro proporzionale nella misura del 3% previsto dal citato “Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro”. Tale orientamento, peraltro, procede sul solco di precedenti elaborazioni giurisprudenziali in materia. In proposito, a titolo esemplificativo e non esaustivo, già nel 2008 la Cassazione aveva avuto modo di ribadire il principio poc’anzi espresso con un interessante contributo fornito dalla sentenza n. 24913/2008. Secondo tale statuizione, infatti, “il trasferimento di una pluralità di beni costituisce cessione d’azienda (o di un suo ramo) laddove l’oggetto specifico sia costituito dal passaggio dei beni intesi in senso unitario e funzionale, suscettibile di vedersi attribuita ex ante l’attitudine all’esercizio dell’impresa. Si ha quindi cessione d’azienda, soggetta ad imposta di registro proporzionale (e non ad Iva), quando le parti non hanno inteso trasferire una semplice somma di beni, ma un complesso organico unitariamente considerato, dotato di una potenzialità produttiva, tale da farne emergere ex ante la complessiva attitudine anche solo potenziale all’esercizio d’impresa” (cfr., A. Spina, in www.fiscooggi.it, 21/08/2009). Proseguendo, il Collegio del 2008 chiarisce ulteriormente che laddove “(…) i beni strumentali ceduti siano atti, nel loro complesso e nella loro interdipendenza, all’esercizio di una impresa (…), non si richiede che tale esercizio sia attuale, essendo sufficiente l’attitudine potenziale all’utilizzo per un’attività d’impresa, né che la cessione comprenda anche le relazioni finanziarie, commerciali e personali”. Ciò posto, per i giudici di ultima istanza – “(…) ai fini fiscali, per la qualificazione di un atto di trasferimento come cessione d’azienda non rileva la circostanza che i singoli beni aziendali siano stati ceduti globalmente o con più atti separati, né la circostanza che il cedente sia un soggetto non munito di autorizzazioni all’esercizio dell’attività dell’azienda, e nemmeno la circostanza che al momento della cessione l’azienda fosse concretamente esercitata, perché rileva unicamente la causa reale del negozio e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai contraenti. E ciò anche in assenza di pattuizioni riferite alla componente “avviamento” (alla quale potrebbe anche non essere attribuito alcun valore), stante la sua non essenzialità in ordine alla esistenza di un’azienda” (cfr A.Spina, cit.). Nessuno scampo, dunque, per chi intendesse, spesso con artifizi, baypassare o smorzare le pretese erariali. Meglio mettersi al riparo dalle forche caudine dell’accertamento preventivo non lasciando niente d’intentato e procurandosi adeguate pezze d’appoggio per le future verifiche da parte dell’A.d.E., negli ultimi tempi particolarmente avvezza ed attiva a passare sotto la propria lente d’ingrandimento buona parte delle compravendite tra soggetti esercenti attività commerciali. (S.C. per NL)
 

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