Controllo dei lavoratori: il badge per il parcheggio non si può usare

Commento alla sentenza della Corte di Cassazione Sez. IV, 17/07/2007, n. 15892


di avv. Alessandra Delli Ponti per NL

La Suprema Corte nell’interessante sentenza si è espressa sulla liceità dell’installazione di un badge aziendale per l’accesso al parcheggio, ad uso dei dipendenti, alla luce di quanto previsto dall’art. 4 della Legge n. 300/70.

Il caso

Un’azienda ha messo a disposizione dei propri dipendenti muniti di autovettura un locale garage ove posteggiarla durante l’orario di lavoro. L’accesso al garage era regolato da un congegno di sicurezza attivato da un tesserino – badge – personale assegnato a ciascun dipendente, lo stesso utilizzato per l’ingresso agli uffici.
Attraverso i dati raccolti da tale congegno, che registrava sia l’identità dell’utente che gli orari di ingresso e uscita dal garage, comparati con quelli di ingresso e uscita al lavoro, l’azienda ha rilevato delle incongruenze nelle presenze del dipendente in ufficio rispetto alle entrate e uscite registrate nel garage. Pertanto la stessa azienda procedeva al licenziamento dello stesso dipendente.
Il dipendente licenziato ha impugnato il licenziamento contestando la legittimità dello stesso poiché basato sui dati raccolti in violazione dell’articolo 4 della legge 300/70, ovvero dello Statuto dei Lavoratori.
Il caso è arrivato in Cassazione.

Il giudizio della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha dato ragione al dipendente e ha dichiarato illegittimo il licenziamento.
Secondo la Corte l’apparecchiatura di controllo degli accessi al parcheggio aziendale che registra orari e nominativi dei dipendenti che lo utilizzano, consentendo l’incrocio dei dati con quelli acquisiti (lecitamente) attraverso il sistema di controllo degli accessi, qualora non sia stata installata (differentemente da quella di controllo degli ingressi) nel rispetto delle procedure dell’art. 4 secondo comma l. n. 300/70, non è lecita e non è lecito l’impiego dei dati rilevati mediante essa quand’anche dimostrino una violazione del dipendente dell’orario di lavoro e quindi dell’adempimento della prestazione dovuta.
Inoltre, per la Corte l’esigenza di tutela della garanzia della riservatezza e dignità del lavoratore a cui è preposto l’art. 4 S.L. non consentono di escludere dalla fattispecie astratta i casi dei c.d. controlli difensivi, ossia di quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando tali comportamenti riguardano l’esatto adempimento della prestazione e delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro e non la tutela di beni estranei dal rapporto stesso, “ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentano quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’ispettorato del lavoro.

Commento

Al fine di comprendere la portata e l’importanza delle affermazioni della Corte di Cassazione è bene preliminarmente inquadrare correttamente la problematica.
Da sempre nello svolgimento della prestazione lavorativa, il datore di lavoro mette a disposizione del lavoratore della strumentazione che lo stesso lavoratore custodisce e dovrebbe utilizzare per lo svolgimento delle sue mansioni. L’utilizzo di tale strumentazione mette a confronto, giuridicamente, due importanti diritti.

Da una parte esiste il diritto del datore di lavoro di esercitare un certo potere di controllo, nel senso che è legittimato a verificare il corretto andamento dell’organizzazione produttiva e, quindi anche lo svolgimento dell’attività lavorativa. Tale legittimo potere di controllo è riconosciuto al datore di lavoro dal Codice Civile (articoli 2086 c.c. e 2104 c.c.).

Dall’altra parte esiste il diritto del lavoratore a non essere leso nella propria dignità, libertà e riservatezza. Tale diritto è garantito e riconosciuto in Italia dalla Costituzione, dal Codice Privacy (D.lgs. 196/2003) e in ambito comunitario da importanti provvedimenti normativi (tra tutti merita menzione il “Documento di lavoro riguardante la vigilanza sulle comunicazioni sul posto di lavoro elaborato dal Gruppo di lavoro sulla protezione dei dati istituito in base all’articolo 29 della Direttiva 95/46/CE).

La coesistenza di due diritti egualmente importanti è, dal punto di vista normativo, regolata dallo Statuto dei Lavoratori.

Ma il quesito, che si è trovato a dover affrontare anche la Corte di Cassazione nella sentenza riportata non è di facile soluzione: fino a dove è lecito il potere di controllo del datore di lavoro e quando, viceversa, è lesivo della riservatezza del lavoratore?

Punto centrale per la risoluzione di tale quesito è l’applicazione dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori.

La norma, al primo comma, sancisce un divieto inderogabile e assoluto, assistito da sanzione penale, di installazione ed uso di impianti audiovisivi e altre apparecchiature finalizzate al controllo “dell’attività lavorativa”.
Il secondo comma contiene un divieto che potremmo definire flessibile. Consente, infatti, l’utilizzo di strumenti dai quali potrebbe derivare indirettamente un controllo a distanza dei lavoratori, purché ricorrano le seguenti condizioni:

– il ricorso ad impianti o ad apparecchiature di controllo sia richiesta “da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro”;
– l’installazione sia subordinata al raggiungimento di un “accordo con le rappresentanze sindacali aziendali,” o “in mancanza di queste, con la commissione interna”. In difetto di accordo, il datore di lavoro deve ottenere l’autorizzazione dalla Direzione regionale del lavoro competente per territorio, la quale provvede stabilendo “ le modalità per l’uso di tali impianti”.

La norma quindi distingue tra:
a) le apparecchiature destinate unicamente a controllare a distanza lo svolgimento dell’attività lavorativa, sottoposte al divieto assoluto
e
b) le apparecchiature la cui installazione è richiesta da esigente organizzative e produttive o di sicurezza del lavoro, che non hanno come finalità primaria il “controllo”, soggette ad un divieto flessibile.

Sull’applicabilità dell’articolo 4, la giurisprudenza ha qualificato, sino ad oggi, come “legittimi” la categoria dei cosìdetti controlli difensivi, che consistono in forme di controllo o monitoraggio dirette ad accertare condotte illecite del lavoratore che ledano il patrimonio aziendale o la sicurezza, la cui tutela rientra certamente nel diritto riconosciuto dall’articolo 41 della Costituzione.

Pertanto, secondo la giurisprudenza intervenuta sino ad oggi, laddove la finalità del controllo sia legata all’accertamento della commissione di un illecito, non verrebbero in rilievo i principi di libertà, dignità e riservatezza tutelati in primis dallo Statuto dei lavoratori. In questa direzione si muoveva la Corte di cassazione con una importante sentenza del 3 aprile 2002 n. 4746, che in parte sembra essere riformata dal più recente pronunciamento sopra illustrato.

La Corte di Cassazione, oggi rivede in parte la propria posizione, prendendo esplicitamente le distanze dalla sentenza del 2002 citata.
Il nuovo orientamento della Corte si basa sul fatto che l’esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore.
Per tale ragione anche i cosìdetti controlli difensivi devono rispettare la procedura dell’articolo 4, secondo comma dello Statuto dei lavoratori.

La Corte di Cassazione, in sostanza, distingue due diverse fattispecie di controlli difensivi:
1. i controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori che riguardano (come nel caso considerato) l’esatto adempimento della prestazione e delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro
2. i controlli che riguardano la tutela di beni estranei al rapporto lavorativo, come il caso esaminato nella sentenza 4746/2002 (che verteva sulla legittimità dell’installazione di un apparecchio di rilevazione delle telefonate ingiustificate).

Pertanto, la Corte di Cassazione aggiunge alcuni elementi alla teoria dei c.d. controlli difensivi. La Corte, in altri termini, separa l’esecuzione della prestazione ed il suo controllo ordinario, che ricadrebbe secondo la sentenza nelle previsioni del 4 Statuto dei Lavoratori, dalla tutela di beni estranei al rapporto, che parrebbe escludere da tale ambito.
Così facendo, tuttavia, la Corte sembra restringere la nozione di controlli difensivi.
Forse un elemento che andrebbe nuovamente rivisitato alla luce delle nuove tecnologie, ma che la sentenza non affronta, è il concetto di “apparecchiature di controllo”.

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