Elusione fiscale. Sull’abuso di diritto la Cassazione riconosce l’integrazione del reato di dichiarazione infedele

Accertato il superamento delle soglie di punibilità nell’avviso di accertamento notificato dall’Amministrazione finanziaria, scatta la rilevanza della condotta elusiva che il Giudice penale è tenuto a valutare indipendentemente dagli esiti del giudizio eventualmente concluso avanti alle Commissioni Tributarie.

A confermarlo è la sentenza n. 7739 della seconda sezione penale della Corte di Cassazione nella pronuncia dello scorso 28 febbraio che – per altro verso – ha già suscitato un acceso dibattito sull’ermeneutica "creativa" seguita dal Collegio, apparentemente in contrasto con quanto evidenziato dal legislatore delegato nella relazione al D.Lgs n. 74/2010, anche detto "manette agli evasori". Difatti, è proprio mutuando il principio di diritto da tale corpus normativo che la Suprema Corte – con tale statuizione – innestava nel nostro ordinamento il fatto tipico contestabile ai soggetti che violano quanto disposto dall’oramai noto art. 37 bis D.P.R. n. 600/1973, prescrizione che impone la non opponibilità al Fisco di "atti, fatti e negozi" posti in essere con il solo scopo di far conseguire al contribuente un risparmio d’imposta. La vicenda che veniva sottoposta all’attenzione del Collegio in forza di un ricorso proposto dalla procura della Repubblica avverso la sentenza del G.U.P. che aveva ritenuto la non sussistenza del fatto contestato per la irrilevanza penale della condotta elusiva, traeva origine da un’operazione di "esterovestizione" di una società di diritto italiano che aveva ceduto – attraverso una sofisticata triangolazione – ad un soggetto lussemburghese lo sfruttamento di propri marchi in cambio della corresponsione di royalities, godendo così della più favorevole tassazione dello Stato nel quale i soci dell’impresa accertata avevano fittiziamente trasferito l’attività principale, di fatto gestita dall’Italia. Così, in estrema sintesi, la ricostruzione giudiziale che veniva ritenuta – benché apparentemente legittima – non opponibile all’Erario in forza della richiamata norma antielusiva. Fin qui l’aspetto strettamente fiscale della vicenda discusso dalla Commissione Tributaria investita della controversia, che però consentiva al giudice penale "in forza del sistema del doppio binario" la possibilità di valutare indipendentemente dalle risultanze del giudizio di gravame avverso l’avviso di accertamento la rilevanza della condotta elusiva, integrata la condizione oggettiva di punibilità costituita dal superamento delle soglie previste (ed ultimamente ritoccate verso il basso) dal D.Lgs n. 74/2000. E’ proprio da tale normativa che originava – secondo il Collegio intervenuto –  la condotta di rilevanza penalistica, in primo luogo sulla scorta di quanto previsto dal suo art. 1, lett. f) recante la definizione di "imposta evasa", cioè  "la differenza tra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l’intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione (…)" che, nella pronuncia in esame, veniva ritenuta "idonea a ricomprendere l’imposta elusa, che è, appunto, il risultato della differenza tra un imposta effettivamente dovuta, cioè quella della operazione che è stata elusa, e l’imposta dichiarata, cioè quella autoliquidata sull’operazione elusiva". A ben vederre, l’argomentazione non rendeva certamente giustizia ad una chiarezza espositiva che in casi del genere sarebbe auspicabile, di talché l’iter logico argomentativo dei giudici di Piazza Cavour proseguiva con un’attenta disamina dei vari e possibili capi d’imputazione. Osservava peraltro il Collegio, che la presenza nel nostro ordinamento tributario dell’istituto dell’interpello attraverso il quale, a mente dell’art. 21, commi 9 e 10, L. n. 413/1991, "non dà luogo a fatto punibile (…) la condotta di chi (…) si è uniformato ai pareri del Ministero delle Finanze o del Comitato consultivo per l’applicazione delle norme antielusive (…) ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell’istanza sulla quale si è formato il silenzio assenso", induceva (ed induce) a ritenere che "l’elusione, fuori Dal procedimento di  interpello, possa avere rilevanza penale (…) nonostante la relazione al decreto legislativo (n. 74/2000, n.d.r.) precisi che tale disposizione non può essere letta come diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie latu senso elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell’organo consultivo". Certo è, conclude la Corte, che "non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge", non potendosi affermare nel campo penale "l’esistenza di una regola generale antielusiva (…), mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva", riferendosi all’infedeltà nella dichiarazione resa al Fisco in sede di autoliquidazione delle imposte. (S.C. per NL).

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