Intercettazioni. Che il ddl approvato sia solo il primo passo per riformare una giustizia malata per colpa di pochi ma bisognosa di cure nell’interesse di tutti

Esistono tantissimi magistrati che conducono con abnegazione e meticolosità un delicato lavoro. E lo fanno in silenzio, tra le mura dei tribunali. Ma ne esistono anche che preferiscono leggere loro nomi e gesta su patinate pagine


Il pensiero di questo periodico sul ddl intercettazioni è noto ai lettori più assidui. E’ apertamente in controtendenza con gran parte del mondo giornalistico italiano. Noi crediamo infatti che sia sacrosanto porre un freno al giornalismo-spazzatura che informa degli eventi spiando dal buco della serratura la vita privata degli indagati, conducendo processi mediatici che poi immancabilmente condanna all’esito di giudizi effettivi, che, generalmente, ha pesantemente influenzato. Crediamo sia sacrosanto porre dei limiti a certi magistrati che prediligono indagini sulla base del “fumus” mediatico piuttosto che secondo le rigide regole di codici che nell’atto pratico divengono flessibili, inopportunamente trasformando termini perentori in ordinatori. Spesso questi magistrati sono esaltati da un ristretto manipolo di giornalisti che ha scoperto la vena d’ora dello “sparlare a prescindere”, meglio, poi, se da screditare è la “casta dei politici”, facendo, ovviamente, di tutta un’erba un fascio. E’ anche, e soprattutto, grazie a loro se la fiducia degli italiani nella giustizia e nei mezzi di comunicazione di massa è scaduta a livelli così bassi come gli attuali. Esistono, tuttavia e per fortuna, giornalisti dall’etica e dalla deontologia meno flessibili che a questo gioco non ci stanno, così come lavorano in silenzio e con abnegazione bravissimi magistrati che mai si sono fatti (e si farebbero) tentare da macchine fotografiche, telecamere e colorate pagine dei settimanali da spiaggia o sedurre dal loro nome negli incisi delle grigie pagine dei quotidiani che riportano testi di conversazioni private intercettate, su loro ordine, per lo più riportanti circostanze del tutto estranee alle indagini, ma ideali per stimolare morbosamente l’attenzione dei lettori con prurigine sui più bassi istinti. Volevamo approfondire ulteriormente questi delicati ma fondamentali aspetti sociologici, quando abbiamo scoperto, grazie al sito Franco Abruzzo.it, da cui spesso attingiamo (quando il buon Franco non si fa prendere troppo la mano dai suoi strali sindacali…), che Francesco Carraro ne L’Opinione del 16/04/2008 lo aveva già fatto meglio di quanto potessimo fare. Sicché, se volete, potete leggere quanto segue.

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L’Opinione del 16 aprile 2008.

Malcostume intercettazioni: la condanna viene scontata in anticipo. Giusta l’idea di mettere regole restrittive. Pene legali e pene illegali

di Francesco Carraro

Una delle priorità che non possiamo trascurare, come privati cittadini e come società, è quella di riappropriarci del sacrosanto diritto alla privacy. Per questo, va applaudita senza riserve la decisione con cui Berlusconi ha annunciato che tra i primi provvedimenti del suo nuovo eventuale governo ci sarà un giro di vite sulle intercettazioni: divieto assoluto di effettuarle salvo che per reati di terrorismo e criminalità organizzata, pene severe per chiunque indebitamente le dispone o ne fa uso o le divulga sui giornali. Dubitiamo seriamente che queste misure possano poi produrre un effetto concreto nell’immediato, vista l’endemica e cronicizzata incapacità del nostro sistema legislativo e giudiziario di inverare nei fatti quella chimera che risponde al nome di certezza del diritto e della pena. Tuttavia, anche solo da un punto di vista simbolico, la scelta del leader del PdL ha un peso e una pregnanza che non possono che incontrare il consenso di chi ha solide convinzioni liberali e libertarie. L’uso ossessivo, smodato, sregolato, morboso dello strumento dell’intercettazione, infatti, ha prodotto danni incalcolabili alla vita di migliaia di persone e squarci difficilmente rimarginabili alla credibilità dell’universo giustizia e di coloro che dovrebbero amministrarla in nome del popolo. Vi sono due sole sicurezze, in campo penale, in Italia: la prima è che le pene ‘legali’ non vengono scontate, la seconda è che quelle ‘illegali’ (perché non previste da alcuna norma, come appunto la berlina dei media riservata agli intercettati) inceneriscono per sempre vite, famiglie, identità, non di rado innocenti. I rei conclamati non pagano quasi mai e per intero il prezzo della colpa, mentre gli incolpevoli fin troppo, fin da subito e molto più duramente rispetto a quanto stabilito dai codici. Quanto alla prima certezza, basti pensare che la cosiddetta deterrenza del meccanismo sanzionatorio non può funzionare perché, semplicemente, le pene comminate non vengono scontate oppure lo sono ‘all’italiana’ cioè in misura ridicola e sproporzionata, per difetto, rispetto all’evento: in galera è pressoché impossibile finirci, a meno di essere recidivi di professione, a causa degli innumerevoli riti alternativi, istituti premiali, sconti codificati e indulti periodici che vanno a braccetto con quella farsesca e kafkiana lentezza dell’iter procedurale che sta alla base dell’accertamento dei fatti e dell’irrogazione della punzione. Ne discende che, per quanto sia grave il delitto perpetrato, il suo autore finirà libero in tempi incredibilmente rapidi rispetto alla pena comminata oppure beneficerà dell’effetto prescrizione, per il biblico tempo trascorso dalla commissione del fatto alla pronuncia di condanna.
Basti pensare che sono fuori dagli inizi degli anni novanta i vari compagni che, solo quindici anni prima, commisero il più drammatico assassinio politico della nostra storia recente, il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Appena un decennio o poco più e già liberi tutti. Può seriamente ambire a funzioni di dissuasione un meccanismo che macina esempi come questi? Può scoraggiare qualcuno dal delinquere una legge penale che promette, ma non mantiene, che rende la libertà (in forme e modi diversi) agli autori del più grave episodio terroristico ed eversivo del secondo dopoguerra? Ma non è finita qui. E’ la seconda certezza, quella delle pene che abbiamo definito ‘illegali’, a dare la reale misura della perversione del nostro sistema. Perché l’autentico castigo che in Italia non è risparmiato a chiunque finisca sotto i riflettori di un’indagine di rilievo è la crocifissione giornalistico-televisiva riservata con implacabile meticolosità sia agli indagati sia agli sventurati che per qualche ragione finiscono nella rete degli intercettori del malcostume.
Se a questo aggiungiamo l’uso distorto e raramente appropriato della carcerazione preventiva, il quadro è completo. Si sconta la punizione prima della condanna e le nostre cronache sono piene di suicidi d’onore o morti ammazzati dalla depressione o dalle più diverse malattie psicosomatiche dopo aver conosciuto la gattabuia non come naturale conseguenza di un processo giusto e definitivo, ma solo quale geniale trovata dell’ego ipertrofico di qualche piemme d’assalto. Sia come sia, e a prescindere dalle contraddizioni della custodia preliminare, puntuale come la morte, ad ogni inchiesta di richiamo nazionale decine di persone trovano il loro nome infangato sulle prime pagine dei quotidiani di maggior tiratura, buttato in pasto al livore o alla curiosità di un pubblico ormai assuefatto alla cultura dello spioncino, a una sensibilità da vojeur levigata negli anni da troppi pessimi reality show. Piovono da cancellerie colabrodo paginate di verbalizzazioni: frasi smozzicate, imprecazioni da osteria, confessioni a mezza bocca, veleni sussurrati in una conversazione che doveva restare segreta. Insomma, tutto quel repertorio di schifezze, colpi bassi, battutacce, cattiverie che ognuno ha l’indiscutibile diritto di dire quando, come e quanto vuole se è tra le quattro mura di casa propria o al telefono con un’altra persona. Ecco, questo diritto in Italia non è contemplato, grazie a questa regia occulta, e mai smascherata, che consente (desidera?) la pubblicazione delle intimità di un indagato (e di chi sfortunatamente ne condivide una chiacchierata) prima non solo di una condanna, ma addirittura di un processo. E’ un malcostume criminogeno, violento, antidemocratico e illiberale che deve cessare se non vogliamo che prenda definitivamente corpo nel nostro ordinamento quella sorta di ufficioso Ministero ombra del Vizio e della Virtù mutuato dai regimi della sharia che controlla i nostri giorni e le nostre notti e rovina la vita a un povero disgraziato non perché abbia commesso un reato, ma perché ha cianciato in maniera non edificante con un amico. La pena da pagare (un’esistenza distrutta, una dignità fatta a pezzi, una storia personale irrimediabilmente imbrattata) è troppo alta, oltre che illegale, per essere ancora tollerata. E se qualche sacerdote della pudicizia (di quelli che discettano in tivù) dovesse obiettarvi che basta comportarsi bene per non essere sputtanati, ditegli di mandare le registrazioni dei suoi rendez-vouz con mogli o amanti varie al Corriere. Siamo ansiosi di leggerli.

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