Audio. Loudness engagement: per puristi pratica deleteria, per editori strumento per ingaggiare ascoltatori sommersi da un’offerta infinita

loudness, vu meter

Il loudness continua a dividere editori, puristi e sound engineer. Da un lato promette maggiore impatto e capacità di catturare l’ascoltatore distratto, dall’altro sacrifica dinamica, naturalezza e chiarezza sonora, generando affaticamento.
Intanto cresce il mercato dell’audio HQ, anche se resta circoscritto a una nicchia esigente.

Sintesi

La loudness war, nata negli anni ’70 con le radio americane e divenuta standard nella musica digitale, oggi si rinnova come loudness engagement: volume percepito più alto per catturare l’attenzione in pochi secondi.
I vantaggi sono chiari: maggiore impatto durante la scansione di canali o playlist, più competitività sonora e percezione di densità.
Ma i contro, evidenziati dai puristi e dai sound engineer, pesano: affaticamento uditivo, appiattimento dinamico e perdita di chiarezza nei contenuti parlati.
La vera sfida non è il “come arrivare” ma il “come essere fruito” del suono, in modo intuitivo e sostenibile.
Intanto gli studi confermano un calo di attenzione verso la qualità, complice l’uso massivo di smartphone, smart speaker e TV slim che penalizzano la resa.
Non sorprende quindi che la differenza tra audio compresso e hi-res passi inosservata al pubblico medio, immerso in una “cultura del sottofondo”.
Eppure, il mercato hi-res cresce: da 32,8 miliardi nel 2023 a 78 miliardi previsti nel 2030, con Apple ed Amazon che già offrono contenuti HQ e Spotify pronta al debutto.
Restano però i limiti di banda e la percezione marginale nei device consumer.
La radio si trova in bilico: deve “suonare forte” per restare competitiva, ma anche distinguersi per qualità e contenuti.
La raccomandazione degli esperti è chiara: non inseguire il volume a ogni costo, ma costruire un’identità sonora coerente, sostenibile e riconoscibile.

Loudness war

La cosiddetta loudness WAR – la tendenza ad aumentare artificialmente il volume percepito, comprimendo la dinamica sonora (il termine loudness nasce come definizione di un circuito elettrico per compensare la minore sensibilità dell’orecchio, soprattutto alle frequenze basse, quando l’impianto audio è utilizzato a basso volume di emissione sonora) – non è certamente una novità.

Fenomeno risalente nel tempo

Si tratta di un fenomeno ampiamente noto, iniziato negli anni  70 negli Stati Uniti con le stazioni radio AM/FM e proseguito nell’era digitale anche in sede di editoria discografica, fino a diventare uno standard de facto nelle produzioni musicali e nelle emissioni radiofoniche.

Le sfumature odierne del loudness

Oggi, però, la questione loudness assume nuove sfumature: da un lato l’engagement immediato dell’utente, utile per catturare l’ascoltatore distratto o in ambienti rumorosi; dall’altro l’impoverimento dell’esperienza sonora, che rischia di alienare gli utenti più attenti e appassionati.

Il quadro composito

Le fonti internazionali e gli interventi raccolti nelle recenti convention del settore e pubblicati negli ultimi anni su queste pagine permettono di ricostruire un quadro composito, nel quale convergono fattori tecnici, abitudini di consumo e strategie commerciali.

Loudness engagement: pro e contro di una pratica controversa

Secondo gli editori che sfruttano il loudness engagement (la capacità di ingaggiare utenti durante la scansione dei contenuti attraverso un più accentuato impatto sonoro), i lati positivi della tecnica sono: una migliore capacità catturare l’attenzione (un segnale più forte appare più presente all’ascolto, soprattutto durante la selezione rapida di contenuti radio FM, DAB o playlist digitali); maggiori chance nella competizione sonora (in un contesto in cui l’utente decide in pochi secondi se rimanere o cambiare, il volume alto può fare la differenza); percezione di “pienezza” (la compressione spinge i dettagli più bassi in primo piano, restituendo una sensazione di maggiore densità sonora).

I lati negativi

Sul fronte opposto, secondo i sound engineer, i lati negativi della pratica del loudness engagement si sostanziano in un evidente affaticamento d’ascolto ed una perdita di qualità sonora. L’appiattimento dinamico riduce i contrasti sonori, cancellando sfumature e naturalezza, mentre un audio costantemente “sparato” genera stress uditivo, rendendo l’ascolto prolungato meno piacevole.

Distorsione del messaggio

Non solo: secondo gli esperti, l’accentuazione della compressione può generare una distorsione del messaggio, posto che la priorità data al volume può penalizzare la chiarezza vocale, rendendo più difficile comprendere contenuti parlati, news, podcast informativi.

Roberto Bellotti BVMedia - Audio. Loudness engagement: per puristi pratica deleteria, per editori strumento per ingaggiare ascoltatori sommersi da un'offerta infinita
Roberto Bellotti ceo di BVMedia

Bellotti: il nodo non è “come” arriva il suono, ma come l’utente può “fruirne”

“Il vero nodo oggi non è tanto “come” arriva il suono, ma se l’ascoltatore può fruirne in modo intuitivo e sostenibile”, commenta Roberto Bellotti, ceo di BVMedia, principale player italiano per la commercializzazione di soluzioni audio BF.

Il calo di attenzione verso la qualità audio: mito o realtà?

Diversi studi (McKinsey, King’s College London) confermano che la capacità di concentrazione del pubblico sui contenuti audio si è ridotta nell’ultimo decennio. Gli utenti tendono a privilegiare la comodità e l’immediatezza rispetto alla qualità intrinseca del suono.

I limiti dei device consumer

Gran parte della fruizione di contenuti sonori avviene tramite smartphone con altoparlanti minuscoli e cuffie economiche; smart speaker compatti, spesso mono, con bassi limitati; smart tv ultra-slim, con casse poste sul retro per esigenze estetiche, che sacrificano la resa acustica, sempre meno percepita come importante (le soundbar e gli impianti dolby-surround sono quasi scomparsi nelle case); infotainment auto di fascia bassa, con altoparlanti essenziali.

Lossless o hi-ress

In questi contesti, la differenza tra un audio compresso ed uno ad alta qualità è percepita marginalmente. Non sorprende che molti utenti non avvertano la necessità di formati lossless o hi-res, prestando invece maggiore involontaria attenzione all’accentuazione del loudness.

Una “cultura del sottofondo”

D’altra parte, la musica e la radio, sempre più spesso, diventano colonna sonora ambientale (mentre si guida, si cucina, si lavora) e la centralità dell’ascolto critico si riduce a favore di un consumo secondario, multitasking.

HQ Audio: mercato di nicchia o opportunità di crescita?

Nondimeno, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’audio hi-res non è un segmento marginale: il mercato globale Hi-Res Audio crescerà da 32,8 mld USD (2023) a 78 mld USD (2030) con un tasso di crescita annuo composto (CAGR) del 12,3%. Secondo Business Research Insights l’audio Hi-Fi varrà circa 0,8 mld USD nel 2034, quasi il doppio rispetto al 2025. In termini generali di fruizione, lo streaming audio globale – secondo una ricerca di Mordor Intelligence – è destinato a passare da 46,9 mld USD (2025) a 101 mld USD (2030).

I big dello streaming interessati al loudness engagement?

Apple Music e Amazon Music hanno incluso da tempo l’Hi-Res senza costi aggiuntivi, mentre Spotify, dopo anni di rinvii, lancerà un piano HiFi a pagamento. Certo, HQ non significa suono compresso; anzi, è esattamente il contrario, puntando sulla linearità, ma la tendenza potrebbe per certi versi indicare un ritorno alla rilevanza dell’impatto sonoro.

Limiti strutturali

“Va pur detto che la veicolazione di contenuti HQ incide sulla capacità trasmissiva: l’audio lossless richiede più banda, con costi superiori per broadcaster e OTT. Inoltre, in ambienti rumorosi, o con device consumer, la differenza con un file compresso spesso non è percepita e solo un pubblico di nicchia, solo una minoranza di utenti (gli audiofili) investe in cuffie, DAC e impianti capaci di restituire realmente la qualità hi-res“, interviene Bellotti che si chiede: “La domanda di un suono HQ certamente esiste ed è in crescita. Tuttavia non giustifica una strategia mainstream”.

Il ruolo della radio nel nuovo ecosistema sonoro

“La radio si trova in una posizione ambivalente: da un lato, la pressione a “suonare forte” per mantenere la competitività nella scansione rapida dei canali; dall’altro, la necessità di differenziarsi per qualità e autorevolezza rispetto alle piattaforme streaming.

Est modus in rebus

Lato BVMedia invitiamo pertanto le emittenti clienti a non inseguire il loudness a tutti i costi, ma a puntare su identità sonora coerente, riconoscibile e meno affaticante; contenuti premium (giornalismo, informazione, dirette live) che vadano oltre la mera resa sonora; attuare sperimentazioni IP (podcast in hi-res, contenuti accessori) per soddisfare la nicchia di utenti più esigenti”, conclude il ceo di BVMedia.

Il futuro dell’esperienza audio tra quantità e qualità

Il loudness engagement resta un fenomeno controverso: utile per un coinvolgimento immediato, ma dannoso per la qualità a lungo termine. Il pubblico medio mostra una crescente indifferenza verso la fedeltà sonora, complice l’hardware di consumo e il multitasking.

Numeri in crescita per l’HQ

Eppure, i numeri indicano che il mercato premium dell’audio HQ è in crescita, trainato da audiofili e appassionati disposti a pagare per un suono migliore.

La sfida per i broadcaster

Per i broadcaster e i content audio provider la sfida è duplice: rimanere competitivi sul mainstream, senza cadere nella trappola del “più forte è meglio”; intercettare la nicchia hi-res, sfruttando il digitale e lo streaming come canali di valorizzazione.

Non si vince la guerra del volume: si conquista l’attenzione dell’utente

In altre parole: non serve vincere la guerra del volume, ma conquistare l’attenzione dell’ascoltatore con un audio sostenibile, coerente e riconoscibile. (M.R. per NL)

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