Tra ritardi tecnici, dubbi editoriali, ipotesi di amplificazioni artificiali di dati per ubiquità di radici di marchi nazionali nello stream locale e mancate inclusioni dei nativi digitali, il nuovo sistema di misurazione radiofonica deve ancora dimostrare di poter diventare una vera currency unificata.
Auspicabilmente dall’edizione Audiradio 2026, per la quale l’introduzione della componente elettronica SDK appare sempre più in forse. E ciò anche in considerazione del fatto che in molti si chiedono se essa sia veramente necessaria o forse non sia più utile un meter di mera calibrazione dei dati CATI sempre più inquinabili da fenomeni evidenti e diffusi.
Ma non sono solo questi i fattori che suggeriscono una riflessione puntuale su quanto è già successo e potrebbe ancora succedere se non si intervenisse opportunamente e rapidamente su un’indagine carica di aspettative da parte dell’industria pubblicitaria.
Sintesi
Audiradio 2025 ha segnato il punto zero della nuova misurazione radiofonica italiana; tuttavia, il percorso verso una currency unificata appare ancora irto di ostacoli.
La ritardata pubblicazione del 1° semestre dell’indagine che ha sostituito Radio TER, introducendo la più che mai indispensabile divisione in due stream (nazionale e locale) delle 200.000 interviste CATI, è stata accolta con un certo scetticismo dagli operatori, rinforzando diverse perplessità in vista di Audiradio 2026, che, finalmente, dovrebbe integrare la componente elettronica per la rilevazione automatica degli ascolti, anche se solo on demand.
Secondo il settore, però, l’implementazione della tecnica SDK – già rinviata per ritardi tecnici e complessità operative – rischia di non vedere la luce nemmeno entro il 2026, rendendo la currency “zoppa” e quindi ancora totalmente dipendente dal metodo dichiarativo CATI censurato da Agcom nella sua esclusività.
Inoltre, la mancanza di una governance chiara e di audit indipendenti mette in dubbio la trasparenza e la terzietà dei dati digitali.
Sul piano editoriale, la misurazione dell’on demand ex live (catch up) è al centro di un acceso dibattito: includerla nella currency senza distinzioni rispetto al lineare potrebbe premiare contenuti rumorosi o virali a scapito della qualità informativa. Gli esperti propongono quindi una distinzione netta tra live, catch up (ma anche podcast), con pesi e finestre temporali differenziate.
Altro nodo da sciogliere è la distorsione prodotta dai brand ubiqui, i marchi presenti sia nello stream nazionale che in quello locale: una sovrapposizione che potrebbe aver generato amplificazioni artificiali dei dati del 1° semestre 2025.
Per correggere questi bias, qualcuno vorrebbe proporre di integrare al CATI un meter su smartphone capace di rilevare passivamente l’esposizione ai segnali audio, fornendo una calibrazione oggettiva dei risultati dichiarativi.
Infine, l’esclusione dei nativi DAB dal perimetro ufficiale è ormai considerata non solo anacronistica, soprattutto alla luce dell’ipotesi di dismissione volontaria delle frequenze FM, ma anche foriera di interventi dell’Antitrust.
D’altra parte, per diventare davvero rappresentativa, la misurazione deve aprirsi all’iscrizione non condizionata da parruccosi retaggi analogici, adottando un approccio technology neutral, conforme agli standard europei.
In sintesi, senza un SDK realmente operativo, un’integrazione meter-CATI efficace e l’inclusione dei broadcaster nativi digitali, Audiradio 2026 rischia di restare un progetto incompiuto.
Con queste condizioni, invece, potrebbe finalmente offrire al mercato italiano una currency credibile, moderna e allineata all’evoluzione multipiattaforma del mezzo radiofonico.
Il punto zero dell’audience radiofonica
Il primo semestre 2025 di Audiradio ha segnato, come è stato scritto, il punto zero della misurazione dell’ascolto radiofonico italiano. Un passaggio epocale, almeno sulla carta: due stream separati per nazionali e locali, 200 mila interviste telefoniche (CATI), architettura metodologica rinnovata e la promessa di un’integrazione digitale attraverso il Software Development Kit (SDK), capace di rilevare la fruizione on demand derivata, ma non nativa (quindi catch up, ma non podcast).
Scetticismo verso Audiradio 2026
Tuttavia, a circa una settimana dalla pubblicazione dei primi dati della nuova indagine d’ascolto nata con la finalità di correggere alcune storture della rilevazione TER (Tavolo Editori Radio) e possibilmente superarne gli evidenti e fisiologici limiti, il settore guarda con crescente scetticismo alla fase successiva: quella che dovrebbe condurre, nel 2026 (con Audiradio 2026), alla Total Audience, cioè la somma organica di consumo lineare e differito (ma non nativo, perché figlio del primo). Un obiettivo ambizioso, ma per molti ancora lontano dalla realtà operativa.
La componente SDK che rischia di non decollare
Il nodo principale riguarda l’introduzione del cosiddetto SDK (Software Development Kit), il motore tecnologico chiamato ad avviare la radio italiana nella prima era della misurazione elettronica.
Secondo la roadmap ufficiale, la sua implementazione avrebbe dovuto avvenire dopo la seconda metà del corrente anno (anche se nessuno ci credeva), con un avvio in forma test. Le complessità tecniche – dalla normalizzazione dei segnali digitali al fingerprinting, fino all’integrazione con app, skill, action e siti delle emittenti – non solo hanno reso utopica l’introduzione nel 2025, ma la rendono improbabile prima della seconda metà dell’anno prossimo quand’anche in termini di campione sperimentale, con un’operatività completa, quindi difficilmente, attuabile entro il 2026.
Una Audiradio 2026 (ancora) zoppa?
In pratica, la currency radiofonica si presenta al mercato ancora zoppa: una parte del consumo (quello digitale) sarà (nella migliore delle ipotesi) rilevata in modo frammentario o non uniforme, mentre la componente CATI continuerà a reggere da sola il sistema, seppure in un contesto ormai radicalmente mutato.
Un rischio evidente, soprattutto in una fase in cui la fruizione ibrida – tra FM, DAB, IP (declinato nell’eterogeneità di app, smart speaker, smartphone, smart tv, pc, tablet, sistemi automotive, ecc.) – rappresenta, con buona pace di qualche emarginato parruccone, la norma più che l’eccezione.
Governance
A complicare il quadro c’è poi il tema della governance: chi garantirà (realmente) la terzietà dei dati SDK (al netto delle alterazioni dei bot), la trasparenza dei processi di deduplica e la certificazione dei campioni digitali? Senza un audit (veramente) indipendente e una rendicontazione chiara sul grado di copertura delle fonti, l’integrazione elettronica rischia di rimanere più un’operazione di immagine che una vera evoluzione metodologica.
On demand: la frontiera del “rumore”
Altro tema che divide gli editori è la misurazione dell’ascolto on demand ex live, cioè dei contenuti radiofonici fruiti successivamente alla messa in onda, spesso in forma di catch up o clip condivise.
Da un punto di vista tecnico, includere questa dimensione è un passo inevitabile per allinearsi alle metriche digitali internazionali. Tuttavia, sul piano editoriale, molti operatori temono che una valorizzazione indiscriminata dell’on demand finisca per alterare il DNA stesso del mezzo radiofonico.
La radio è live
La radio, per sua natura, vive nell’immediatezza. Premiare in egual misura un contenuto ascoltato in diretta ed uno recuperato giorni dopo – magari perché diventato virale su TikTok o rilanciato sui social – significa spostare il baricentro dell’attenzione. Il rischio, come da noi evidenziato in più occasioni, è che la nuova metrica finisca per premiare il rumore ed il trash, invece che la qualità: programmi basati su provocazioni o dinamiche polarizzanti potrebbero ottenere visibilità sproporzionata rispetto ai format informativi o di approfondimento.
Rinunciare all’ascolto on demand ex lineare
La soluzione, secondo gli esperti, non è rinunciare alla misurazione dell’on demand, ma collocarla nel giusto contesto, distinguendo chiaramente tra ascolto live, catch up e podcast (nella attuale formulazione SDK i contenuti nativi sono esclusi dalla rilevazione), ciascuno con propri pesi e finestre temporali di attribuzione. Una finestra di 24 o 48 ore, ad esempio, permetterebbe di mantenere il legame con l’attualità radiofonica, senza scivolare nel terreno del consumo differito indefinito, più vicino allo streaming puro che al broadcasting.
CATI e meter mobile: il vero salto di qualità
La terza criticità – forse la più concreta – riguarda la natura dichiarativa dell’attuale indagine.
Il metodo CATI, basato su interviste telefoniche, resta uno strumento prezioso per misurare la penetrazione e la notorietà dei brand (soprattutto nell’interesse delle radio non nazionali), ma mostra limiti evidenti in un ecosistema di consumo sempre più frammentato.
Brand ubiqui
In particolare, la presenza di brand ubiqui – marchi con radice comune presenti sia nello stream nazionale che in quello locale – introduce inevitabili distorsioni cognitive (a proposito, il nostro approfondimento sul tema ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tanto che ci è stato detto che sarà proposto in un ordine del giorno in Audiradio). L’intervistato, quando dichiara di aver ascoltato Radio X, potrebbe riferirsi tanto alla versione nazionale quanto alla Radio Xy locale, con un effetto di duplicazione che altera le gerarchie e penalizza chi non dispone di strutture a marchio multiplo.
I bias
Per evitare questi bias, cresce tra gli operatori la richiesta di affiancare alla rilevazione CATI una elettronica tramite meter su smartphone, sul modello di quanto già accade in Regno Unito (RAJAR) o Francia (Médiamétrie).
Un approccio ibrido consentirebbe infatti di rilevare automaticamente l’esposizione ai segnali audio, riducendo il margine di errore legato alla memoria dell’intervistato e fornendo un punto di calibrazione oggettivo per i dati dichiarativi.
Non sostituire il CATI, ma proteggerne la genuinità
Ovviamente (nell’interesse soprattutto delle radio locali) non si tratta di sostituire il metodo CATI, quanto di integrarlo con un sistema capace di validarne i risultati e di neutralizzare le distorsioni statistiche più evidenti. Magari attraverso un pilota nazionale di sei mesi, con panel su smartphone e correlazione dei dati con le interviste, che permetterebbe di testare l’efficacia del modello e fornire da subito un segnale di maggiore credibilità al mercato pubblicitario.
Nativi DAB e digitali puri
C’è poi una questione che, a detta di molti editori, appare ormai incomprensibile: l’assenza dei nativi DAB dal perimetro ufficiale della rilevazione.
In un momento in cui si discute apertamente di una dismissione volontaria delle frequenze FM con indennizzo nella prossima legge di bilancio, continuare a misurare soltanto le emittenti legate a concessioni analogiche appare un anacronismo.
Gli esclusi che cambiano il mercato
Le realtà nate su DAB rappresentano ormai una quota significativa della produzione radiofonica nazionale, spesso con modelli editoriali innovativi e distribuzioni multipiattaforma (smartphone, smart tv, DTT, smart speaker, app, connected car). Escluderle significa restituire una fotografia incompleta dell’audience, sbilanciata su un ecosistema analogico destinato a perdere progressivamente rilevanza.
Technology neutral
L’apertura ai nativi digitali, oltre che un atto di equità, è un passaggio strategico: solo includendo queste realtà la misurazione potrà definirsi technology neutral, in linea con gli standard europei. E solo così sarà possibile leggere in modo coerente la trasformazione del mezzo radiofonico, ormai attraversato da forme di ascolto che sfumano il confine tra broadcasting e streaming ed evitare il conseguente intervento dell’autorità Antitrust già paventato da qualcuno.
Verso una currency credibile
L’Italia si trova dunque davanti a un bivio: consolidare Audiradio 2026 come strumento moderno e inclusivo, o rinviare ancora l’appuntamento con una currency realmente crossmediale.
Per farlo non basteranno promesse di innovazione tecnologica, ma serviranno scelte coraggiose e operative: un SDK pienamente funzionante e trasparente (qualora verificato come realmente necessario, beninteso); una distinzione chiara tra le diverse tipologie di on demand; l’introduzione di una componente elettronica per verificare i dati CATI e l’apertura definitiva ai nativi digitali.
Per una Audiradio 2026 che non sia un progetto incompiuto
Senza questi elementi, Audiradio 2026 rischia di restare un progetto incompiuto, più simbolico che sostanziale.
Con essi, invece, potrebbe rappresentare la prima vera currency italiana in grado di misurare la radio per ciò che oggi è davvero: un mezzo ibrido, fluido, multipiattaforma e ancora – nonostante tutto – straordinariamente vivo.