Radio, tv, editoria. I modelli subscription e on demand se non lo sostituiranno, certamente limiteranno sempre più l’advertising

subscription

I media stanno cambiando il proprio modello di business: abbandonano l’advertising per andare sempre più verso formule in abbonamento (subscription), che spesso presuppongono l’on demand.
Insomma, la radio, la tv e l’informazione online sostenute dalla pubblicità in un futuro potrebbero essere marginali, o comunque certamente meno rilevanti di oggi rispetto al finanziamento da abbonamenti.
Non si tratterebbe, tuttavia, di una scelta autonoma dei media, ma di un’influenza del comportamento del consumatore, sempre più orientato al consumo di contenuti ad-free. Questa è la tesi di Bob Gilbreath, co-fondatore e amministratore delegato di Ahalogy, the Passion to Purchase Platform, che in un suo contributo su Medium affronta il tema del futuro prossimo (si potrebbe dire, quasi, del presente) dell’industria mediatica.

Secondo Gilbreath, nel settore dei media sta avvenendo un cambiamento epocale, paragonabile all’avvento dell’e-commerce. La possibilità di acquistare online qualunque bene – dai biglietti aerei, alla biancheria intima – ha completamente rivoluzionato le abitudini dei consumatori (evento che avviene davvero con molta difficoltà) e ha costretto società praticamente di qualunque settore ad adattarsi al cambiamento per poter sopravvivere.
Questo stesso tipo di macro-cambiamento, basato su un nuovo paradigma di comportamento da parte dei consumatori si starebbe verificando nel settore mediatico: il modello di business dei media si sta spostando dall’advertising agli abbonamenti (subscriptions) proprio perché sono i consumatori a influenzare il modello.

Le osservazioni di Gilbreath partono dalla considerazione che le sottoscrizioni a pagamento stiano crescendo in una maniera da molti ritenuta sorprendente. Ad esempio, i giornali – dati per spacciati molte volte negli scorsi anni – stanno avendo una nuova rinascita delle vendite dirette: il New York Times ha guadagnato 130.000 sottoscrizioni a novembre e il Wall Street Journal le ha viste salire del 300%. È poi sotto gli occhi di tutti il successo senza freno delle piattaforme video ad-free Netflix e Amazon Prime, mentre Hulu e YouTube stanno per lanciare i propri servizi in abbonamento.
Infine, nel settore radiofonico, Spotify e SiriusXM hanno dimostrato che gli utenti sono disposti a pagare un abbonamento per ascoltare la radio senza interruzioni pubblicitarie originando ricavi economici significativi, come quelli di Pandora che, grazie al lancio della nuova formula a pagamento di 9,99 dollari al mese, è riuscita a coprire le perdite dello scorso anno (343 milioni di dollari).

C’è di più. Non solo il modello di business in abbonamento è applicabile a tutti i media, ma il comportamento del consumatore si espande in ugual modo: in altre parole, chi ha definito una subscription per un mediium, spesso lo fa anche per gli altri.
È quasi ovvio, poi, che con l’esperienza il modello si perfezioni, migliorando il pricing, il servizio, la user experience delle piattaforme di cui gli utenti fruiscono attraverso la subscription.
Sono dunque diversi i fattori che contribuiscono al successo del modello in abbonamento, mentre la causa principale del progressivo allontanamento dall’advertising, secondo Gilbreath, è il senso di frustrazione che in consumatori avvertono quando sono sommersi dalla pubblicità.

In un tempo in cui le interruzioni pubblicitarie erano limitate e, soprattutto, limitata era la possibilità di scegliere il canale attraverso cui leggere, guardare o ascoltare contenuti, la pubblicità era maggiormente tollerata dall’utente, come una sorta di tassa per poter fruire di un servizio. Lo sviluppo digitale dei media ha ribaltato la posizione dell’utente, che ha un ventaglio di scelta enorme tra i media: grazie al potere di scelta è stato dimostrato che gli utenti sono disposti – e, anzi, preferiscono – pagare per avere un servizio on-demand e free-adv.
Un altro buon motivo per i media per passare alla formula in abbonamento è che gli investitori stanno già assecondando il trend con lo spostamento degli investimenti, perché ritengono non più affidabile il modello pubblicitario, mentre reputano prevedibile e redditizio quello fondato sulle sottoscrizioni.

Gilbreath va anche oltre, cercando di fare previsioni su come questo cambio di paradigma influenzerà i social media. In effetti, Facebook e simili sono media fondati sul modello advertising: l’iscrizione è gratuita, mentre i ricavi arrivano dalle inserzioni pubblicitarie a pagamento mostrate sulle feed degli utenti. La salute di alcuni social, come Twitter, non è affatto solida, mentre Facebook si difende dalle richieste incessanti degli inserzionisti spiegando che l’aumento della presenza di advertising nelle feed farebbe allontanare gli utenti.
Secondo Gilbreath – il quale, invero, è forse troppo superficiale nel dare per scontato che i social siano equiparabili agli altri media e che le persone siano disposte a pagare per un servizio free ads proprio come avviene per giornali, video e musica – arriverà il momento in cui anche i “neonati” social media dovranno scegliere chi accontentare, se gli inserzionisti o i consumatori.

Che il modello di business by subscription stia prendendo piede trasversalmente nell’industria mediatica è innegabile, ma la conclusione a cui giunge Gilbreath – cioè che questo nuovo modello soppianterà del tutto l’advertising, in futuro – è molto forte. Sia la radio che la televisione, in fondo, sono ancora in massima parte alimentate dagli introiti pubblicitari. Anche per questo, la coesistenza dei due modelli (e la resistenza dell’advertising) sembra destinata a durare a lungo. (V.D. per NL)

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