Dal pieno utilizzo delle dodici memorie FM alla rinuncia delle preselezioni in DAB+: l’eccesso di scelta spinge l’utente a ridurre drasticamente le proprie preferenze, con conseguenze dirette sulla fidelizzazione del singolo programma.
Nell’era analogica l’ascoltatore riempiva tutte le memorie dell’autoradio, selezionando con cura una dozzina di stazioni su un massimo di cinquanta ricevibili in modulazione di frequenza.
Con il digitale, la logica si è ribaltata: a Milano e Roma l’offerta supera ormai le 230 emittenti DAB+, ma l’utente medio ne memorizza sistematicamente appena quattro, quando non rinuncia del tutto alla preselezione, affidandosi alle prime della lista offerta sul dashboard. O addirittura si limita ad una sola stazione: sempre la stessa.
Nello streaming il fenomeno si amplifica a dismisura: TuneIn aggrega oltre 130.000 flussi radiofonici e l’abbondanza diventa disorientamento, mentre la fedeltà evapora.
Ne deriva una frammentazione estrema degli ascolti radiofonici, che solleva un interrogativo cruciale per gli editori: come farsi trovare in un contesto dove la reperibilità è più problematica dell’offerta stessa?
Dalla scelta imposta dal segnale analogico più forte, al disorientamento della sovraofferta radiofonica digitale
In epoca completamente analogica, un’autoradio, in un’area metropolitana italiana, riceveva mediamente una cinquantina di stazioni FM. Un numero tutt’altro che trascurabile – rispetto ai due canali RAI del 1974 integrati da qualche stazione straniera in onde medie -, ma circoscritto e percepibile dall’utente come un’offerta concreta e gestibile, spesso imposta dalla potenza del segnale.
12 memorie
Non a caso le dodici memorie disponibili – di solito suddivise in due banchi da sei tra i segnali in modulazione di frequenza più potenti – venivano quasi sempre riempite, anche se poi l’ascoltatore tendeva a concentrarsi sul primo gruppo di sei, quelle “di fiducia”, richiamate rapidamente con un gesto (frutto di una selezione personale maturata nel tempo).
Zoccolo duro
Un processo lineare, dove la tecnologia fungeva da supporto all’abitudine e alla fidelizzazione. Il resto delle stazioni rimaneva marginale, utile in caso di noia o curiosità, ma senza scardinare il nucleo di riferimento.
Presidio di fedeltà editoriale
In quel contesto, le memorie dell’autoradio non erano solo un ausilio tecnico, ma uno strumento identitario: segnavano le preferenze, costruivano la routine e stabilivano un presidio di fedeltà editoriale (anche se spesso imposta dalla potenza del segnale).
L’abbondanza digitale e la paralisi da scelta
Il salto al digitale ha ribaltato i parametri. A Milano o Roma, oggi, il display di un’autoradio DAB+ elenca oltre 230 stazioni (tra analogiche e digitali, anche se le prime sempre più spesso relegate alla fine della lista), tendenzialmente con medesima qualità di ricezione (quantomeno all’interno dello stesso mux e salvi differenti rapporti di protezione). Una ricchezza apparente, che però genera un effetto opposto a quello previsto.
Il rapporto Com-Nect
Secondo un recente rapporto della società di ibridazione radiotelevisiva Com-Nect (gruppo Consultmedia), la maggior parte di coloro che hanno acquistato un auto negli ultimi due anni memorizza appena 4 stazioni sul sistema di car entertainment (con ricezione via etere FM/DAB+), ignorando la possibilità di avere un numero virtualmente illimitato di preselezioni.
No memorie
“Il fenomeno è ancor più estremo se si considera che non pochi automobilisti rinunciano del tutto alla memorizzazione”, commenta lo studio di Massimo Rinaldi, ingegnere di Com-Nect. “Alcuni ascoltano semplicemente le prime emittenti della lista di ricezione, ordinate secondo logiche alfanumeriche (numeri da 0-9, lettere A-Z, peraltro spesso scavalcate dall’abuso di caratteri speciali, avulsi dall’ID ufficiale delle emittenti). Altri, addirittura, si limitano ad una sola stazione, che diventa colonna sonora esclusiva di tutti gli spostamenti in auto.
Il paradosso dell’offerta sempre più ampia
Il paradosso è evidente: più l’offerta cresce, meno viene sfruttata. La memoria dell’autoradio, che in FM era preziosa, nel digitale diventa quasi superflua. Non è più il contenitore delle preferenze, ma un’opzione ignorata, segno di un rapporto degradato con il mezzo.
TuneIn e l’infinito che disorienta
La questione si amplifica ulteriormente nello streaming. Applicazioni come TuneIn – il più noto aggregatore di flussi radiofonici al mondo – offrono accesso ad oltre 130.000 stazioni. Un universo sconfinato, che teoricamente dovrebbe garantire a ogni utente la possibilità di trovare il contenuto perfetto, ma che nella pratica si traduce in una estrema polverizzazione e difficoltà di orientamento”, puntualizza Rinaldi.
Percorso ad ostacoli
La ricerca della “propria” emittente (semmai concetto considerabile ancora rilevante) diventa un percorso ad ostacoli: anche solo testare un canale prima di inserirlo in una lista personale risulta complicato. L’abbondanza diventa rumore di fondo, la scelta si disperde in un mare indistinto e le opzioni per le memorie perdono ancora una volta la loro funzione ordinatrice.
Ascolti polverizzate
Così, gli ascolti si frammentano, le audience si polverizzano, la fidelizzazione si indebolisce.
Per i broadcaster questo scenario apre interrogativi strategici: come emergere in un ambiente dove la reperibilità è più complessa dell’ascolto stesso?
Visibilità nell’automotive
La risposta viene da un approccio su più fronti al problema.
Partiamo dall’industria automobilistica: secondo il Radio In-Vehicle Visuals Report 2025, i costruttori stanno diventando veri e propri gatekeeper dei contenuti. La posizione di una stazione nella lista del cruscotto, il design dell’interfaccia e la presenza di loghi e metadati, visivi influenzano fortemente la scelta. Per gli editori, ciò implica la necessità di presidiare gli standard tecnici e i rapporti con le case automobilistiche, per evitare di essere nascosti dietro interfacce poco trasparenti.
Branding e riconoscibilità
Un altro aspetto, sempre più rilevante, è quello della moltiplicazione di nomi, che genera confusione e perdita d’identità. In questo contesto, un brand forte e facilmente memorizzabile può fare la differenza. L’utente, perso nel mare dell’offerta, tende ad affidarsi a marchi noti, evocativi, semplici da individuare e, soprattutto, immediatamente riconoscibili. Problematica che esploderà con il progressivo affermarsi dell’uso dei comandi vocali per la somministrazione di contenuti audio.
Algoritmi e disintermediazione
Un terzo piano di intervento parte dall’espansione di Android Auto (250 milioni di veicoli nel 2025), che mostra come la partita si giochi anche sulla capacità di dialogare con le piattaforme che governano l’accesso. Se le app ed i sistemi operativi diventano i veri sintonizzatori, gli editori devono assicurarsi visibilità attraverso accordi, metadati ottimizzati e strategie di searchability (anche e soprattutto in funzione dei citati comandi vocali), altrimenti rischiano di rimanere invisibili.
Semplificazione dell’esperienza
La lezione del Video On Demand è chiara: l’utente spende su piattaforme come Netflix e Prime Video, fino a 40 minuti a scorrere i cataloghi e spesso si arrende alle processazioni dell’algoritmo. La radio deve imparare proprio da questo limite: più engagement, live, percorsi guidati e soprattutto maggiore diversificazione rispetto alle playlist tematiche delle piattaforme di streaming.
Il ruolo della radio al cospetto delle piattaforme OTT
“La radio deve essere attiva, viva, deve guidare, approfondire, far conoscere (indifferentemente se parla di futuro, presente o passato). Una sequenza musicale continua, per quanto gradevole ed accuratamente selezionata, ormai non è più radio, ma la duplicazione di qualcosa di già presente, anche presso altre fonti audio”, osserva Patrizia Cavallin, advisor editoriale di Consultmedia e consulente musicale della Radio Svizzera Italiana. “Mai come oggi la radio ha la possibilità di tornare a fare quello che faceva un tempo, non restringendosi e chiudendosi, ma ampliandosi ed aprendosi”.
Memorie nel futuro
Un concetto condiviso dall’ing. Rinaldi che lo mutua sul piano tecnologico-comportamentale: “Emergere per approdare nelle nuove memorie del device, significa ridurre la complessità percepita dall’utente, rafforzare la riconoscibilità del brand, presidiare il rapporto con i gatekeeper tecnologici e investire in interfacce semplici e personalizzate. Perché, in un contesto dove la reperibilità è più difficile dell’ascolto stesso, la vera sfida non è più essere presenti, ma essere trovati e poi facilmente ricordati“.