C’è un filo rosso che attraversa la storia dei media – e più in generale delle rivoluzioni culturali – ed è una purtroppo diffusa incapacità strutturale degli operatori incumbent di riconoscere, per tempo, i segnali che anticipano cambiamenti epocali, che pure si manifestano chiaramente in nuce.
È un paradosso ricorrente: proprio coloro che saranno più colpiti dalle trasformazioni tendono a sottovalutarle, a derubricarle a mode passeggere, a fenomeni marginali, magari tecnicamente interessanti, ma valutati come strategicamente ed economicamente irrilevanti.
La storia della pay tv italiana
La storia della pay TV italiana, sul punto, è esemplare.
L’idea che il pubblico potesse pagare un abbonamento per vedere contenuti televisivi appariva, fino agli anni Novanta, culturalmente incompatibile con il contesto socioculturale nazionale.
Il canone RAI
Il rifiuto quasi antropologico del canone RAI – che di fatto era (ed è) un abbonamento obbligatorio giuridicamente carrozzato da imposta sulla detenzione di apparecchi atti o adattabili alla ricezione di radioaudizioni – e l’abitudine a una televisione “gratuita”, sostenuta dalla pubblicità, sembravano rendere irricevibile qualsiasi modello a pagamento.
L’azzardo di Murdoch (che tale non era)
Non a caso, l’ingresso di Rupert Murdoch con Sky (succedendo alle esperienze – all’avanguardia, ma non sufficientemente convinte – di Stream e Telepiù) nel mercato italiano venne letto più come un azzardo che come una visione.
Rivoluzioni strutturali: la pay tv
Eppure, quella che veniva considerata un’anomalia di mercato era, in realtà, l’anticipazione di una mutazione strutturale: il valore non stava più nel mezzo, ma nella relazione diretta con l’utente. La pay TV non era soltanto un diverso modello di finanziamento, ma un differente patto editoriale.
Inseguire invece di guidare il cambiamento
Tuttavia, questo passaggio fu colto prima dagli outsider che dagli operatori tradizionali, al punto che l’intero comparto televisivo italiano si ritrovò a inseguire, anziché guidare, il cambiamento.
Rivoluzioni strutturali: l’IP tv
Lo stesso schema si è ripetuto con l’avvento della IP tv, del video on demand e delle piattaforme audio.
«Chi guarderà mai la televisione su un computer?» era una domanda ricorrente, pronunciata con sufficienza negli ambienti broadcast fino a non molti anni fa. L’idea che il televisore potesse perdere centralità a favore di schermi personali appariva una forzatura tecnologica, non una traiettoria inevitabile.
Il dito e la Luna
Così solo i più lungimiranti capirono che la transizione non riguardava il device, bensì il controllo del tempo di fruizione.
Rivoluzioni strutturali: le piattaforme OTT
Il successo delle piattaforme OTT (over the top, cioè che operano al di sopra delle reti broadcast, giungendo direttamente all’utente finale senza la mediazione degli operatori di rete via etere) ha dimostrato che il vero valore, per l’utente, non è l’assenza di pubblicità, ma la libertà di scelta: quando guardare, cosa guardare, su quale schermo ed a quali condizioni.
Riorganizzazione del passato
In questo senso, la crescita incessante di Netflix, di Amazon Prime Video, di Disney, di YouTube, ma anche di Spotify ed Amazon Music e delle altre grandi piattaforme non rappresenta una rottura rispetto al passato, ma una sua riorganizzazione profonda. Il pubblico ha accettato di pagare, non perché avverso alla pubblicità, ma perché disposto a monetizzare la propria autonomia.
Il paradosso: pagare per vedere pubblicità
Qui emerge il paradosso più interessante – e rivelatore – dell’attuale fase di mercato: oggi consideriamo del tutto normale pagare un abbonamento per accedere a contenuti che includono, seppur in forma ridotta o differenziata, messaggi pubblicitari. Un’ipotesi che, solo pochi anni fa, sarebbe stata bollata come insostenibile.
La contraddizione
Pagare e vedere spot? Un’eresia per entrambe le culture: quella del broadcasting gratuito e quella, nascente, dell’abbonamento “premium”. Accettata anche da coloro che venti anni fa contestavano come la RAI veicolasse spot nonostante percepisse un canone (di fatto un abbonamento obbligatorio per la visione di contenuti).
Modello ibrido strategicamente necessario
Eppure, l’attuale riassetto dell’ecosistema OTT globale e le tensioni tra grandi gruppi media, evidenziano che il modello ibrido è diventato non solo accettabile, ma strategicamente necessario. La pubblicità torna centrale non come retaggio del passato, bensì come leva di sostenibilità in un mercato maturo, ipercompetitivo e ad alta intensità di investimento.
Questione di controllo della scelta
Il pubblico lo accetta perché il valore percepito dell’offerta resta elevato e perché l’esperienza d’uso rimane, comunque, sotto il suo controllo.
Il mondo alla rovescia
In questo “mondo alla rovescia”, ciò che ieri sembrava impensabile oggi è normalità, mentre ciò che appare oggi ovvio rischia di essere domani superato. La lezione, tuttavia, sembra non essere ancora stata pienamente appresa.
L’importanza di saper leggere la discontinuità
Ogni nuova discontinuità – dall’intelligenza artificiale generativa alla personalizzazione algoritmica estrema – viene inizialmente letta con le stesse categorie difensive: marginalità, immaturità, incompatibilità culturale.
Le rivoluzioni arrivano all’improvviso
La storia recente dei media insegna invece che i segnali deboli non vanno ignorati, soprattutto quando mettono in discussione modelli consolidati. Perché le rivoluzioni, quasi sempre, non arrivano all’improvviso: si annunciano con largo anticipo. Il problema non è la loro visibilità, ma la disponibilità – culturale prima ancora che industriale – a riconoscerle per ciò che sono.











































