Mentre il mercato finanziario globale premia gli aggregatori di contenuti di terze parti (di flussi streaming radio, in particolare, come TuneIn, venduto per l’equivalente di 149 mln di euro) e svaluta chi li produce (i contenuti), la possibile cessione del gruppo editoriale GEDI (a 140 mln di euro tra radio, quotidiani, società di podcast, concessionaria pubblicitaria), simbolo del giornalismo italiano, apre un interrogativo che va oltre la cronaca: quanto vale oggi l’informazione e chi la veicolerà il futuro?
Sintesi
La cessione del gruppo editoriale GEDI, valutata complessivamente intorno ai 140 milioni di euro (tutto compreso), assume un significato che va ben oltre la cronaca industriale.
Mentre il mercato globale continua a premiare piattaforme di aggregazione e distribuzione di contenuti – come TuneIn (il cui core business è aggregare flussi streaming radio di terze parti, già liberamente disponibili in rete), venduta per l’equivalente in dollari di 149 milioni di euro – la svalutazione di un gruppo che produce informazione, sostiene redazioni, finanzia giornalismo e radio nazionali, solleva un interrogativo strutturale: quanto vale oggi l’informazione e chi la controllerà il futuro?
La trattativa in esclusiva tra Exor ed il gruppo greco Antenna dell’armatore-editore Theodore Kyriakou (col supporto finanziario del principe saudita bin Salman) cristallizza una tendenza già evidente: il valore economico attribuito dal mercato non segue più il valore informativo, ma privilegia modelli asset light, scalabili ed a basso rischio.
GEDI, che controlla quotidiani storici come La Repubblica e La Stampa, un rilevante polo radiofonico (Radio Deejay, Radio Capital, m2o, DeeJay Tv), una compagnia di produzione podcast (One Podcast) ed una concessionaria pubblicitaria (A. Manzoni & C.), viene valutata meno di un aggregatore che non produce contenuti propri, non sostiene costi editoriali e non si assume responsabilità giornalistiche.
Il confronto con TuneIn è emblematico: un aggregatore di flussi streaming radiofonici, con costi prevalentemente tecnologici e commerciali, viene premiato perché scalabile, leggero e prevedibile nei ricavi.
Al contrario, un editore come GEDI resta gravato da costi strutturali incomprimibili: lavoro giornalistico, sedi, rischi legali, responsabilità editoriali e pressioni politiche.
In un mercato che premia chi controlla l’accesso e non chi produce il contenuto, questo diventa un handicap sistemico.
Lo stato della vendita di GEDI
La vendita del Gruppo GEDI, ormai entrata nella sua fase decisiva (con buona pace della politica, che se ne è accorta con almeno tre mesi di ritardo dalle notizie di stampa), non rappresenterà soltanto l’ennesimo passaggio di proprietà nel settore editoriale italiano. Diverrà, con ogni probabilità, uno spartiacque simbolico e industriale.
Asse greco-saudita
Non tanto per l’identità dell’ormai certo acquirente (salvi improbabilissimi colpi di scena) – il gruppo greco Antenna di Theodore Kyriakou (potenziato dai capitali del chiacchierato principe/politico saudita Mohammed bin Salman) – quanto per ciò che questa operazione racconterà, retrospettivamente e prospetticamente, sul valore attribuito dal mercato all’informazione prodotta, organizzata e verificata, rispetto a quella semplicemente distribuita, aggregata o indicizzata.
La trattativa
La conferma dell’apertura di una trattativa in esclusiva tra Exor e gli armatori-editori greci della potente famiglia Kyriakou (che Newslinet aveva anticipato questa estate) ha cristallizzato uno scenario che da mesi si stava delineando. GEDI, che controlla testate come La Repubblica e La Stampa (che dovrebbe poi essere alienata al gruppo veneto NEM, perché John Elkann vuole un’unica vendita), oltre ad uno dei più rilevanti portafogli radiofonici italiani (Elemedia, cui fanno riferimento le stazioni nazionali Radio DeeJay, Radio Capital, m2o, la televisione DTT DeeJay Tv, una serie di radio digitali ancillari IP e DAB e la piattaforma One Podcast), la concessionaria A. Manzoni & C. (che, anche se ancorata ad un modello di vendita pubblicitaria anni ’90, è ancora un player di tutto rispetto), verrà probabilmente ceduta ad una valutazione che, pur significativa in termini assoluti, è drammaticamente modesta se confrontata con altre operazioni recenti nel settore dei media e dell’audio digitale.
Una vendita che parla più del mercato che degli editori
Il dibattito pubblico che ha accompagnato l’annuncio ufficiale della possibile cessione ha oscillato tra due poli. Da un lato, la preoccupazione politica e istituzionale per l’uscita di un grande gruppo editoriale italiano dall’orbita nazionale, con richiami al pluralismo, alla sovranità culturale ed all’opportunità che asset così sensibili restino sotto il controllo italiano.
Exor guarda altrove
Dall’altro, una lettura più freddamente industriale, che ha ricondotto la vicenda ad una decisione di portafoglio di Exor, ormai sempre più orientata verso settori a maggiore redditività e minore esposizione regolatoria.
Il punto centrale
Entrambe le letture, tuttavia, rischiano di non cogliere il punto centrale. La vendita di GEDI per 140 milioni di euro tutto compreso (si tenga presente che 20 anni fa un solo impianto FM da Valcava era valutato un settimo di tale cifra) non dirà soltanto qualcosa sugli Agnelli o su Kyriakou e bin Salman. Suggerirà, piuttosto, molto di più su come il mercato globale dei media stia ridefinendo, in modo strutturale, il rapporto tra produzione di contenuti e distribuzione degli stessi.
Il confronto GEDI e TuneIn
È in questo contesto che il raffronto con un’altra operazione recente, apparentemente lontana, ma in realtà paradigmatica, diventa inevitabile. L’acquisizione di TuneIn da parte di Stingray per una cifra nell’ordine dei 175 milioni di dollari (pari a circa 149 mln di euro) rappresenta uno dei segnali più chiari della nuova gerarchia dei valori nel mercato audio globale.
Chi veicola informazione vale di più…
TuneIn è essenzialmente un aggregatore di contenuti di terze parti (rectius, di meri flussi streaming lineari). Un semplificatore che aiuta l’utente ad orientarsi nel fruire di contenuti comunque liberamente disponibili (quantomeno per il suo core business, che è l’aggregazione di flussi streaming radio già presenti in rete).
… di chi la produce
TuneIn non produce informazione, non sostiene i costi di redazioni e corrispondenti, non investe in inchieste, né in contenuti editoriali originali paragonabili a quelli di un gruppo come GEDI. TuneIn non produce: aggrega, indirizza flussi, organizza l’accesso a contenuti realizzati da altri. Eppure, proprio questa sua natura “leggera” – industrialmente parlando – è ciò che il mercato ha premiato.
Costi strutturali
Un aggregatore di flussi streaming radiofonici come TuneIn, che, va detto, per contro non gode di contenuti pubblici ed è quindi tendenzialmente indipendente dalle influenze politiche – opera con costi strutturalmente molto inferiori rispetto ad un editore tradizionale. Non sostiene gli oneri fissi tipici della produzione editoriale: stipendi giornalistici, sedi, infrastrutture redazionali, rischi legali legati alle news, responsabilità editoriali.
Scalabilità
La sua principale spesa è tecnologica e commerciale, non contenutistica. E, soprattutto, il suo modello di business è intrinsecamente scalabile: una volta costruita la piattaforma, l’aggiunta di nuovi contenuti non comporta costi marginalmente significativi.
Costi (in)comprimibili
GEDI, al contrario, continuerà a sostenere – anche nel futuro – costi elevati e difficilmente comprimibili. Perché produrre informazione di qualità non è un’attività che si può automatizzare completamente, né delocalizzare senza perdere valore. È un modello intrinsecamente labour intensive, esposto a dinamiche politiche, sindacali e reputazionali. In un mercato che privilegia la scalabilità, la prevedibilità dei ricavi e la riduzione dei rischi, questo diventa un handicap strutturale.
Differenze valutative
Il paradosso che emerge, e che la vicenda GEDI renderà ancora più evidente, è che il valore economico non seguirà più quello informativo; anzi, tenderà a muoversi in direzione opposta. Le piattaforme che si limiteranno ad organizzare, indicizzare e redistribuire contenuti prodotti da altri verranno valutate più degli editori che quei contenuti li rendono possibili.
Netflix-Warner Bros
È lo stesso meccanismo che ha già ridisegnato l’industria musicale ed audiovisiva e che ora sta investendo l’informazione. Netflix che assorbe Warner o grandi broadcaster che stringono alleanze asimmetriche con YouTube non sono eccezioni, ma anticipazioni di un assetto in cui il controllo dell’accesso varrà più del controllo del contenuto.
Heavy asset vs light asset
Nel caso di GEDI, questa dinamica si manifesterà in modo ancora più evidente perché il gruppo incarna una tradizione editoriale che ha fatto della produzione di informazione il proprio core business. Una tradizione che il mercato continuerà a considerare culturalmente rilevante, ma economicamente meno appetibile rispetto a modelli asset light.
Le reazioni delle redazioni come sintomo, non come causa
Le proteste dei giornalisti de La Stampa e La Repubblica, culminate in scioperi e sospensioni delle pubblicazioni, non vanno lette soltanto come una reazione difensiva ad una possibile cessione. Sono il sintomo di una consapevolezza più profonda: il rischio che il valore del lavoro editoriale venga ulteriormente compresso in un contesto in cui la proprietà sarà sempre più finanziaria e sempre meno identitaria. La politica, dal canto suo, continuerà probabilmente ad oscillare tra dichiarazioni di principio e realismo di mercato. Ma difficilmente riuscirà a invertire una tendenza che non nasce in Italia e che non riguarda solo GEDI.
Uno scenario che si proietterà nel futuro
Nel futuro prossimo, la cessione di GEDI verrà ricordata come uno dei passaggi in cui si sarà manifestata in modo esplicito la frattura tra valore economico e valore democratico dell’informazione. Il mercato continuerà a premiare chi controlla i flussi, gli ecosistemi, i cruscotti digitali e le interfacce – come nel caso di TuneIn e, più in generale, delle piattaforme globali (come Netflix) – mentre gli editori tradizionali verranno valutati sempre più come produttori di contenuti “necessari, ma sostituibili”.
Informazione fuori controllo
Se questa dinamica non verrà riequilibrata da nuove forme di regolazione o da modelli industriali ibridi, il rischio non sarà solo la perdita di controllo nazionale su grandi gruppi editoriali, ma una progressiva marginalizzazione economica di chi continuerà a fare informazione come bene pubblico. GEDI, in questo senso, non sarà un’eccezione. Sarà un caso di scuola. (M.L. per NL)













































