Per quasi mezzo secolo, il valore industriale della radio privata italiana è stato legato prevalentemente alla proprietà delle reti di distribuzione del segnale: numero e qualità delle frequenze FM, estensione territoriale, potenza irradiata.
Quel modello ha garantito barriere all’ingresso e rendite di posizione; tuttavia, nel tempo, quello che sembrava un vantaggio competitivo, è diventato un grave limite. E non parliamo della mancanza di certezze normative (come la pianificazione delle frequenze FM), che ha – fin qui – disincentivato i grandi gruppi internazionali dall’investire in Italia: quelle ormai sono state superate dalla tecnologia e dalla conseguente legificazione.
La distribuzione del contenuto audio si è progressivamente separata dalla produzione, attraverso la distinzione giuridica – e spesso sostanziale – tra operatori di rete (consorzi DAB+, operatori di rete DTT e sat) o addirittura disintermediata dalle reti broadcast grazie alle soluzioni IP. Ciò ha reso l’accesso diffuso e replicabile.
In questo scenario, quello che era il principale plusvalore della radiofonia italiana, il controllo del segnale via etere, ha perso centralità economica e strategica.
E il valore si è spostato gradatamente su ciò che non è replicabile: identità, riconoscibilità, linguaggio editoriale.
Sintesi
Stiamo assistendo al progressivo declino del “valore meccanico” della radio, storicamente fondato sul controllo delle reti di diffusione via etere, a favore di asset non replicabili, quali identità (ID), brand e linguaggio editoriale.
La disintermediazione IP (con la nascita delle piattaforma over the top, che, in quanto tali, operano al di sopra delle reti broadcast giungendo direttamente all’utente senza la mediazione degli operatori di rete) e l’ascesa dei grandi aggregatori di contenuti (come TuneIn) hanno ribaltato la catena del valore, premiando chi controlla l’accesso e la relazione con l’utente più che chi li produce.
In un contesto iper-competitivo, l’omologazione dei palinsesti e l’appiattimento sulle playlist rappresentano un suicidio industriale.
Per mantenere il ruolo che gli spetta, quindi, la radio deve “tornare a stupire”, puntando su creatività e scouting come leve strategiche, nella consapevolezza che il vero asset oggi è il format, non la rete FM.
La radio evolve così da mezzo a ID editoriale, capace di esprimersi pienamente anche su piattaforme terze ed in ambienti digitali lineari così come differiti (on demand).
La identità diventa un prodotto commerciabile, anche più rilevante del volume di ascolto, mentre la tendenza alla concentrazione in capo a soggetti in grado di resistere in un mercato sempre più caratterizzato da operatori strutturati è un esito sistemico inevitabile, non necessariamente nemico del pluralismo.
Cambia anche il modello pubblicitario: meno GRP, più contesto e relazione: la radio deve trasformarsi in ecosistema di comunicazione integrato per competere con gli OTT.
Collettori IP e ribaltamento della catena del valore
La premiazione economico-finanziaria di grandi aggregatori audio mondiali dimostra – semmai ce ne fosse ancora bisogno – come il mercato stia valorizzando più chi controlla i touchpoint che chi produce contenuti e/o li trasmette via etere.
L’operazione Stingray–TuneIn, sul punto, è emblematica: un soggetto che non produce radio in senso classico è stato premiato dal mercato più di molti editori storici, i cui asset vengono pesantemente svalutati per poter essere alienati. E ciò perché il collettore governa discovery, interfaccia, dati e relazioni coi device (in primis, con l’automotive).
Catena del valore ribaltata
È un ribaltamento della catena del valore: la radio diventa contenuto “a monte”, mentre la piattaforma diventa il vero gatekeeper. In questo contesto, le reti broadcast (FM, DAB, DTT, sat) tendono a trasformarsi in asset ancillari, indiscutibilmente utili nel loro complesso, ma non decisivi singolarmente.
“La radio deve tornare a stupire”
È da questa consapevolezza che nasce la posizione espressa esattamente un anno fa da Gianluca Costella, consulente musicale nel settore radiofonico, che individua nella creatività e nello scouting il vero punto di svolta.
«La radio deve tornare a stupire, come nel 1976», aveva affermato 12 mesi fa Costella, evocando una stagione in cui il mezzo era scoperta, rischio, innovazione. «Oggi siamo schiacciati da playlist sempre più strette. Eppure lo spazio per artisti talentuosi è enorme».
Omologazione in ambiente iper-competitivo è suicidio
Il riferimento non è solo culturale, ma industriale: in un ambiente iper-competitivo, l’omologazione è un suicidio. Se tutti fanno la stessa cosa, nessuno innova.
Effetti della mancata innovazione
“E la mancanza di innovazione porta a una perdita di competitività, ad un obsoletismo aziendale, stagnazione economica, e demotivazione del personale, creando un circolo vizioso di resistenza al cambiamento, sfiducia, scarsa crescita di competenze e incapacità di rispondere alle esigenze del mercato, con ripercussioni negative su produttività, soddisfazione dei clienti e posizionamento strategico”, commenta Giovanni Madaro, ceo di Media Progress, società di analisi strategica in ambito mediatico (gruppo Consultmedia).
Playlist strette e perdita di funzione culturale
Ma quale è la causa del male?
Secondo Costella, la radio ha progressivamente rinunciato a una delle sue funzioni storiche: la mediazione culturale.
La riduzione della varietà musicale e l’adesione passiva a logiche algoritmiche hanno reso molte emittenti intercambiabili. Se una radio suona come una playlist, l’utente non ha più un motivo per sceglierla rispetto alle selezioni di Spotify, Apple, Amazon o YouTube Music (Google). «Lo scouting non è un vezzo romantico – aveva sottolineato il consulente a NL – ma una necessità industriale: senza scoperta, non c’è identità».
Identità è il nuovo capitale
Una visione condivisa da Marco Quarna, programmatore musicale e manager radiofonico, che da tempo insiste sulla centralità del format. «Il mondo è cambiato: oggi occorre investire in scouting, brand e format molto più che nella rete FM», aveva osservato Quarna in un intervento a maggio 2025 su queste pagine, evidenziando come la distribuzione non fosse più il fattore discriminante. Il format diventa così il vero asset proprietario: non il “cosa trasmetto”, ma il “come, perché e per chi”.
Dal mezzo all‘ID
In questo nuovo assetto, la radio smette di essere solo un medium e diventa un marchio editoriale, un ID. Il brand non è più un elemento accessorio, ma l’emblema di valori, linguaggi e promesse editoriali. È ciò che consente alla radio di esistere anche al di fuori della propria funzione e della propria rete broadcast, su piattaforme terze, cruscotti delle auto, smartphone, smart tv, smart speaker. Chi non definisce chiaramente la propria identità rischia di finire diluito nei grandi hub IP (semmai presente, circostanza che ormai non è da considerare scontata).
Identità come prodotto commerciabile
“La conseguenza è evidente: le radio dovranno sempre più spesso commercializzare la propria identità. Non solo pubblicità tradizionale, ma licenze di format, partnership editoriali, product placement, declinazioni on demand, integrazioni verticali con piattaforme terze – quali aggregatori indipendenti ed intermediari – ed automotive – continua Madaro -. In questo contesto, il valore non risiede tanto nel volume di ascolto assoluto, quanto nella qualità e nella coerenza del posizionamento”.
La concentrazione come esito sistemico
Questo processo si inserisce in una dinamica più ampia di concentrazione inevitabile, simile a quella già osservata nel video e nello streaming. Come evidenziato anche nel dibattito antitrust europeo, la competizione non è più tra singole emittenti, ma tra sistemi industriali: gruppi, portafogli di brand, piattaforme integrate. “Resistere a questa logica mantenendo un mercato frammentato significa, paradossalmente, rafforzare i grandi intermediari globali”, osserva Madaro.
Il nodo antitrust e il pluralismo reale
“La concentrazione non equivale automaticamente a riduzione del pluralismo. Anzi, senza massa critica, molti operatori rischiano di non avere risorse per investire in contenuti, tecnologia ed innovazione, diventando dipendenti dai collettori IP. Il vero rischio per il pluralismo non è la crescita dimensionale degli editori, ma la perdita di autonomia editoriale.
La rivoluzione del modello commerciale
Il cambiamento coinvolge direttamente la raccolta pubblicitaria. Vendere la radio esclusivamente sul dato di ascolto appare sempre meno sostenibile in un ambiente che annega la promozione nel prodotto in fase di progettazione (si pensi alle produzioni di Netflix per le quali si negozia preventivamente con gli inserzionisti il product placement). Il mercato chiede contesti editoriali chiari, affinità valoriale, capacità di integrazione crossmediale”, sottolinea l’esponente di Media Progress.
Le radio devono diventare ecosistemi di comunicazione
Come ha spiegato Lorenzo Suraci, fondatore e presidente di RTL 102.5, in una intervista dei giorni scorsi al quotidiano Corriere della Sera, nella quale ha mutuato concetti che aveva anticipato a Newslinet nei mesi scorsi, l’evoluzione passa da una piena integrazione radio-tv-digitale e da un nuovo sistema pubblicitario. Non più spot isolati, ma ecosistemi di comunicazione.
Play
“Non voglio comprare altre radio, voglio invece unificare le radio per vendere un nuovo sistema pubblicitario: RTL 102.5 Play. Dobbiamo competere con gli OTT“, ha spiegato Suraci.
Dalla GRP alla relazione
Insomma, anche per l’editore della principale radio italiana per ascolti, il valore commerciale si sposta dalla quantità alla relazione: community, riconoscibilità, fiducia del pubblico. In questo scenario, le radio capaci di definire chiaramente la propria identità saranno anche quelle più forti nella negoziazione pubblicitaria, perché offriranno ambienti editoriali qualificati, non semplice reach.
Vendere qualità, non quantità
Se le concessionarie pubblicitarie (soprattutto quelle captive, cioè controllate dagli editori) sapranno tornare alla vendita del prodotto specifico, alla identità in luogo della massa di ascolto a cui abbiamo assistito in un processo degenerativo dalla fine degli anni 90 ad oggi, anche l’area commerciale – la più arretrata quanto a modalità di approccio al mercato – godrà della necessaria innovazione.
La radio come sistema
La radio sta vivendo una trasformazione strutturale ed il suo futuro non dipenderà dalla sola difesa ad oltranza delle reti di trasmissione broadcast (utile, ma non sufficiente), ma dalla capacità di evolvere in sistema editoriale integrato, fondato su brand forti, format distintivi tutelabili e modelli commerciali coerenti con l’economia delle piattaforme.
I nuovi valori
In un mondo dominato da collettori IP e logiche OTT, la radio può restare centrale solo accettando una verità ormai evidente: il valore non è più nel segnale, ma nella sua identità. (M.L. per NL)











































